La biografia di Leonora Carrington, pittrice, scultrice, scrittrice, amante e poi compagna di Max Ernst, che per lei lascerà la moglie (Marie-Berthe Aurenche che, in preda alla disperazione, si suiciderà), è già di per sé un romanzo: nata in Inghilterra e cresciuta in un ambiente ricco e colto – arricchito però dalla mitologia nordica narrata dalla madre – si farà espellere da innumerevoli scuole, viaggerà tra Italia, New York e Parigi, dove sarà travolta dall’arte, dal surrealismo, dall’amore e, in seguito, in concomitanza con il sopraggiungere della Seconda Guerra Mondiale, dalla pazzia. L’internamento in manicomio sarà per lei, che a ventitre anni si sente già vecchissima, un punto di non ritorno: una volta uscita, insieme al diplomatico Renato Leduc (dal quale si separerà poco dopo) arriverà in Messico, sua terra d’elezione, che non lascerà fino alla morte, avvenuta nel 2011, all’età di novantaquattro anni.
Elvira Seminara ripercorre per la raffinata collana “Le Mosche d’Oro” di Giulio Perrone Editore le tappe di questa vita fuori dall’ordinario, e lo fa calandosi e calandoci nel profondo delle appassionate, contraddittorie irregolarità della sua vita e delle sue opere, dove cavalli a dondolo e bestie magiche o feroci convivono in autoritratti e racconti, in una simbologia che combina le vette dell’amore con gli inferi della malattia mentale, gli enigmi e i sotterfugi del reale con la spiazzante onestà di un’introspezione sincera, pervasa da un’acuta quanto dissacrante ironia.
Se da un lato la seducente scrittura di Seminara riesce a restituire tutto il fascino del fervente clima culturale e sociale in cui Carrington è immersa, soprattutto nei suoi anni parigini (“adesso siamo con lei ancora qui, a Parigi, in questa festa mobile e travolgente. È innamorata e ispiratissima, allestisce scenografie per Max [Ernst] che mette in scena Alfred Jarry, accoglie a casa Breton, Duchamp, Éluard, Yves Tanguy, Louis Aragon, Picasso, e si divertono a dipingere, litigare e comporre poemi.”), dall’altro questo agile e prezioso volumetto ci mette in guardia da facili e rassicuranti definizioni, prima tra tutte quella di “musa”. Scrive in proposito Seminara, all’inizio dell’avventuroso viaggio in cui ci guiderà alla scoperta del meraviglioso e terribile mondo di Carrington: “Leonora è dea delle rotture. […] Spezza le catene, soprattutto del senso comune, della logica, è la sua vocazione, il gesto più intimo e naturale. Non lo fa per ideologia, o per principio, anzi lei stessa si professa fuori da ogni scuola, da ogni etichetta. A dirla tutta, anche fuori dal movimento surrealista. Lei è oltre ogni convenzione, e convinzione”.
Quello che fa Carrington, e che con minuzia di indagine e calorosa passione Seminara trasmette, è affermare – e fermare nelle sue opere, pittoriche e letterarie – le altezze della vita e le sue precipitose discese, l’inscindibile e magico sodalizio che lega gli inferi al cielo, il sogno alla realtà, il furore alla ragione.
Comunemente ricordata come colei che “ispirò” Max Ernst e il surrealismo, Leonora è molto più di un “link vivente” (come l’aveva definita perfino il New York Times): è un’artista completa che vive e trascende il suo tempo, così come i tentativi di incasellarla che sono stati fatti, primo tra tutti quello dello stesso Ernst che, come riporta Seminara, scrive, riferendosi a lei: “Chi è la Sposa del vento? Sa leggere? […] Si riscalda con la sua vita intensa, con il suo mistero, la sua poesia. Non ha letto niente, ma ha assimilato tutto. Non sa leggere […] E anche se stava leggendo tra sé, gli animali e i cavalli l’ascoltavano ammirati.” Ovvero, la perfetta sintesi tra candore e natura, tra lo spirito ancestrale e il mito. Una narrazione affascinante, certo, ma che di fatto relega la donna-ispiratrice a un ruolo di secondo piano che a Leonora Carrington non appartiene: lei è la protagonista indiscussa del tempo che le è stato dato in sorte, un tempo che sfugge alla linearità cronologica per immergersi nelle profondità della vita.
A ventisei anni, padrona assoluta del proprio destino, consapevole degli abissi della paura e della necessità di non escludere la Morte dalla Vita, scrive, in un linguaggio elegante e feroce, pervaso di maestosa ironia: “Non sono più ‘la ragazza incantevole’ che è passata da Parigi, innamorata – Sono una vecchia signora che ha vissuto molto e sono cambiata – se la mia vita vale qualcosa, io sono il risultato del tempo – Dunque non riprodurrò più l’immagine di prima – Non sarò Mai pietrificata in una “giovinezza” che non esiste più – accetto l’Onorevole Decrepita attuale […] Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che sono sempre stata cieca – cerco di conoscere La Morte per aver meno paura”.