Se non soffrissimo ancora dei residui del lockdown (ci sono, anche se nessuno sembra accorgersene) sarebbe bello conversare con Elisabeth Strout seduti a colazione, e avere da lei notizie di prima mano sul Maine e su cosa pensano da quelle parti della prossima perniciosa rielezione di Trump. Ma è la sua alter-ego Lucy Barton a dire la sua, in questo quarto libro del ciclo di romanzi a lei dedicato. E ne siamo felici, perché proprio su pandemia e lockdown, e sull’inizio di quel flagello targato 2020, il racconto può estendersi sulle vicende generazionali di una famiglia molto allargata e su quel paesaggio “americano” (qui le virgolette, a uso di noi europei, sono necessarie) che tanto hanno motivato il successo della scrittrice relativo ai suoi tanti romanzi. Un’America che può trasferirsi, non senza terrori più o meno sopiti e legami materni altalenanti, da New York (preda di focolai epidemici) a ignote cittadine della profonda provincia dove tutti gli abitanti odiano gli invasori metropolitani.
L’America di Lucy è questa, nel pieno di un periodo storico dove la vita è appesa alle esternazioni invisibili di un virus. Ma Lucy si ritrova davanti all’oceano (Lucy by the Sea), ed è una bella vista, grazie al primo marito William, scienziato che capisce subito quanto sta accadendo e la porta in salvo in un luogo dove il distanziamento risulta facile e non privo di fascino considerando l’armonia del paesaggio circostante. Un luogo tutto sommato magico, dominato da nevicate stagionali e tramonti infuocati su maree che impongono il loro tempo alla scrittrice Lucy, lontana dai familiari ma presente anche più di quanto loro vorrebbero. Le digressioni in questo romanzo abbondano, gli stessi personaggi sembrano aderire all’inevitabilità riservata loro da una Strout in stato di grazia (coadiuvata dalla bella traduzione di Susanna Basso) e capace di infondere al diario della sua “collega” immaginaria una purezza di linguaggio alquanto rara di questi tempi. I sentimenti non sono indossati ma esistono praticamente sotto la pelle di ognuno, che poi li trasuda pienamente riconoscibili: il lettore lo sa, sta assistendo a un fallimento epocale e a molti fallimenti indotti dalla diversità individuale. Dalla paura per Trump alla disfunzione dei rapporti familiari, ci sono saggezze ben strutturate sparse in tutto il romanzo.
Le nuove abitudini sul bordo dell’Oceano, distanti da New York, modificano i rapporti amorosi (uno di questi, essenziale, trova il suo spazio proprio al centro del libro) e la struttura delle famiglie, i problemi e le soluzioni trovano dalla stessa parte scrittrice e personaggio principale, scrittrice anch’essa e ben conosciuta, che ora si ritrova negli stessi luoghi, la stessa cittadina Crosby, dove cammina Olive Kitteridge, protagonista di un altro ciclo di romanzi e racconti di Strout. Lucy ne sente parlare ma non la incrocia. Lucy, oppressa da problemi personali, si appella all’amore alzando la già consueta asticella dell’attenzione verso parenti e amici, e verso la natura circostante che riserva sorprese inaspettate per l’ex-abitante di New York. Nuove sorprese a nuovi abbracci nel suo animo, qualcosa che somiglia più a un picnic che a una colazione, per noi che volevamo farci cogliere in flagrante con una delle voci più “pensose” – risolta nel linguaggio e per questo irrinunciabile – della narrativa americana.