Elisabeth Åsbrink, viaggio in Svezia

Elisabeth Åsbrink, Made in Sweden, tr. Alessandro Borini, Iperborea, pp. 380, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

Frequento la Svezia dal 1985. L’ho girata in automobile, treno, bicicletta, motonave, a piedi. Alla mia prima figlia abbiamo dato un nome tratto dalla letteratura svedese; io continuo periodicamente a visitare il paese, e mi informo su ciò che accade, cosa si scrive e come si vive. Per questo ho voluto leggere questo libro di Elisabeth Åsbrink appena è uscito.

A proposito di opere che si propongono di offrire al lettore un’immagine se possibile esaustiva di un paese, c’è chi ritiene che i migliori osservatori siano stranieri –per altri invece il carattere di una terra, di uno Stato, può essere compreso appieno solamente da chi conosce la lingua, la letteratura, le idee, da chi ci vive. Da questo punto di vista, Åsbrink offre entrambi i vantaggi, dato che è nata e ha sempre vissuto in Svezia, benché sia figlia di un ungherese e una inglese. A parte questa banale considerazione, Le parole che hanno fatto la Svezia (è il titolo originale: Orden som formade Sverige) è un libro importante se non esaustivo, cosa impossibile; è obiettivo e anche intelligente. È diviso in cinquanta capitoli, ognuno ispirato a una parola, un concetto o un evento, che sono il punto di partenza per raccontare momenti dello sviluppo storico, politico, culturale degli svedesi. Åsbrink ha scelto di dare una forma cronologica ai suoi racconti, perciò parte dalle prime notizie storiche che identificano gli svedesi in quanto tali, i suiones di Tacito, e si avvicina a mano a mano ai giorni nostri dimostrando come la mentalità di oggi sia un risultato di stratificazioni ramificate, che affondano nel tempo. È anche possibile leggere i capitoli saltando da uno all’altro, perché il libro non ha un approccio antologico; leggerlo significa tentare di capire la ragione per cui un paese tutto sommato marginale, spopolato, bellicoso e povero si sia trasformato in uno stato ai massimi vertici dell’indice di sviluppo umano dell’Onu — che misura il risultato di aspettativa di vita, istruzione e reddito procapite, in una parola la qualità della vita.

La risposta è al tempo stesso ambigua e chiara: più che da un fantomatico “carattere nazionale”, concetto sciovinista, la diversità svedese è il prodotto di una concatenazione quasi incidentale di idee, fatti, pensieri innestati uno sull’altro come in una fragile costruzione: in una parola, la svedesità è il frutto di parole che sono entrate nella mentalità collettiva grazie a una lingua comune, e che dopo secoli di storia hanno raggiunto una sublimazione nel secolo scorso, nei quarant’anni di governo socialdemocratico. Non fu certo un periodo di pane e rose, anzi l’atteggiamento ambiguo nei confronti del nazismo è proprio di quegli anni, e un certo conformismo perbenista e luterano perdurò fino agli anni Sessanta; ma la Svezia odierna (o meglio, la Svezia sino alla fine del millennio) appare come un edificio eretto su parole d’ordine precise e suggestive: parole come “fiducia”, “casa del popolo”, “individualità”.

In Svezia ci si fida degli altri, ci si fida dello Stato e dell’autorità; gli svedesi sono sensibili alla casa comune e lo Stato moderno instaura un rapporto diretto con l’individuo, senza mediazione di quel concetto astratto che è la famiglia: “Lo Stato non sostiene la famiglia come unità, in base a una scelta consapevole […] da nessun’altra parte i legami diretti tra individuo e Stato sono stati sviluppati tanto come in Svezia.” Per oltre cinquant’anni nessuno, neppure a destra, ha messo in dubbio che lo sviluppo sociale dovesse andare a beneficio di tutti. Era il Välfärdstat, lo Stato sociale o welfare State di Olof Palme, il primo ministro che da leader dei giovani socialdemocratici aveva marciato contro la guerra in Vietnam, e che finirà assassinato nel 1986 in un attentato mai chiarito.

Nel 2015 la sociologa Fereshteh Ahmadi concluse, al termine di una ricerca su duemila persone cui era stato diagnosticato il cancro, che la Svezia è un paese unico al mondo perché ciò che gli svedesi hanno più caro è la natura: mentre altrove in caso di crisi esistenziale ci si rivolge alla fede, il 66% degli intervistati ammisero di trovare conforto nel canto degli uccelli o nel fruscio del vento, contro il 14% che citò la religione. Il libro aiuta anche a capire come si sia arrivati a questo, partendo da una società chiusa, violenta, misogina e puritana.

Tutto ciò ha cominciato a cambiare nel nuovo millennio, e se agli esordi della sua carriera un personaggio come il calciatore Ibrahimović veniva considerato atipico, individualista nel modo sbagliato, negli ultimi anni “la società svedese si è messa in pari con Zlatan Ibrahimović. Il ritratto dei giornalisti nei primi anni della sua carriera era sbagliato. Lui non era non-svedese. Era soltanto svedese prima di tutti gli altri.”

Concludo la recensione citando una frase dello storico Alf Johansson ripresa dall’autrice, e che si riferisce agli anni in cui il paese sembrava in bilico tra il movimento operaio, rappresentato dal partito socialdemocratico, e il nascente prestigio del nazionalsocialismo: “Non c’era nulla che i nazisti in Germania potessero realizzare con la dittatura che i socialdemocratici non potessero realizzare in Svezia con la democrazia.”