Elisa Ruotolo strappa e ricompone il mondo

Elisa Ruotolo, Quel luogo a me proibito, Feltrinelli, pp. 160, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub

Nascita. Vita. Di questo ci parla Elisa Ruotolo, di un’esistenza continuativa in mezzo a virulenti salti di corpo e di mente, nelle trame di una letterarietà lontanissima dalle colonie messe in piedi da certi scrittori sgarbati anche se non privi d’ingegno. Qui non si tratta d’invaghirsi per un romanzo pienamente domiciliato dentro una scrittura che non lascia scampo, che strazia in senso nobile, ma di provare a specchiarsi in pagine con quella fiducia di possibilità che leggiamo nelle poesie dei poeti che hanno attraversato i decenni. Perché dovremo un grato giorno, si spera non troppo in là nel tempo, svegliarci dalla narcosi, scrollarci di dosso la fanghiglia, noi donne e uomini (di più uomini), senza genere che tenga, e lasciare che i libri, certi libri (pochi ma “certi”), facciano cadere la polvere accumulata. Intingere il pensiero nella carne, una buona volta, senza l’assurda paura di scottare – pensiero e carne – al fuoco di generosità e amorosa complicità umana. In Corpo di pane, raccolta poetica del 2019, Elisa Ruotolo esprimeva, a voce alta, la pace che occorre fare dopo esser nati e aver visto altre nascite, sciagure e saccheggi, e misurando il tempo fino al punto di rottura. Attraverso cancelli e prigionie, confessioni da dedicare a qualcuno e i maltrattamenti dei farmaci. Perché il dolore, al pari dei versi, ha bisogno di un sacramento come la scrittura, del suo inesausto esercizio, per ritrovarsi non rovinati al punto da cessare d’esistere.

Quel luogo a me proibito è orientato verso ogni donna e (soprattutto) ogni uomo poiché la voce femminile aggiusta tutte le cose lievemente incomplete e livella le discipline sovrastanti degli adulti costruttori di gabbie. La scrittura nel romanzo è un organismo sodo, qualcosa che moltiplica le prospettive dopo appena una pagina, indicando in che modo da quel momento in poi nessuna frase, nessuna parola, nel libro saranno come si aspetta la nostra piccolezza immaginativa. Ecco avverarsi quella grazia singolare che la specie della poesia fa assaggiare alle genti, dal sapore di terra e di sudore, di tempo visibile nei cerchi sull’acqua mentre si allargano. La luce diventa incidenza e non più semplice diffusione. La voce narrante del romanzo è proprio questa precisione della verità, senza moralismi, tutta dentro una realtà storica e politica. Voce portatrice di regole personali alle prese con le regole di tutti, di familiari e di amiche che non capiscono o capiscono altro, in situazioni antipode.

Nelle tre parti del libro – accompagnate da Kafka, Coetzee, Campo – la ragazza, la donna del poi, ci rivela la propria esistenza nel pieno della meditazione a cui non si sottrae (e non sottrae noi ascoltanti), si rivolge al mondo senza mai abbassare gli occhi di fronte agli steccati e alle proibizioni. La visione degli spazi minimi si fa geometrica, in essi la fatica di riconoscere il proprio corpo si unisce alla fatica di comprendere la ferocia altrui, il dilaniamento portato dal desiderio giacché si deve fare delle scelte e in queste scelte c’è tutto l’impaccio dei muscoli e l’imperio sanguigno dei sensi. Una continua meditazione su tre diversi periodi d’esistenza in cui nessuna distrazione è concessa, dove gli avvenimenti contano talmente tanto che il loro uso non è permesso per descrizioni sommarie. L’io della voce narrante non è un ingombro, ma il racconto stesso che s’interroga combattendo il suo essere esule in luoghi di sembianza straniera e in quotidianità estranee. Ma la scrittura, pur non essendo certi delle sue proprietà curative (poesia o diversamente dalla poesia) persiste in un turbine di dettagli, e il pensiero umano ne ha conforto poiché il tempo è dislocato in spazi dove le parole sono chiare e riconoscibili: nate, volute, da una figura sempre presente, pur nella persistente fatica. Integro pur nella misura stretta delle prigioni e nei frequenti terremoti della terra natìa. La voce narrante del romanzo è questo pensiero diventato improvvisamente, per tutti noi, corpo e sangue e sudore di una donna che attraversa le proibizioni come gli Ebrei attraversarono il deserto e finalmente ebbero il pane ristoratore della grazia, piagati dalle corde e dai nemici alle calcagna, forse mutilati ma con la propria lingua intatta. Alla fine l’autrice ha un moto di pietà verso questa donna i cui amori è convinta di non saper chiudere, a cui le parole ora mancano – ma dopo averne dette una quantità, e sono servite. Lei non le cerca più, ma sono tante: un intero libro.