Dai conglomerati zanzottiani, appoggiando passi e sguardo sulle crepe terrene, Elisa Biagini prende in mano gli affioramenti, i sassi ruvidi che tengono in sé il tempo, e il riconosciuto tempo dell’umana gente. La poetessa guarda al proprio orizzonte, accarezzando la bussola che la conduce – tra vibrazioni telluriche, voci, e bagliori cerebrali – nel mondo, in quel “dove” abitato da confusioni (d’uomini, quasi sempre) e pensieri capillari. Quest’ultimi, fra i compiti dei poeti che sondano per tutta la vita il corpo della lingua. La ricerca approda, nel caso di Biagini, all’intento di farsi leggere su terreni diversi fra loro: su terreni arcaici e su terreni asfaltati, così come accadeva nel libro “dialogante” (Poesia come ossigeno, 2021) di Biagini e Anedda dove la loro parola s’univa alle voci dei classici e dei moderni in uno scambio seminale di lingue.
Lo sguardo in questo nuovo libro va risoluto dove si raccolgono i reperti dell’“intravisto”, dell’“inclinato”, che per gran parte della nostra esistenza sono lì presenti e agenti di forze a cui nessuno sfugge. E che danno qualità alle direzioni prese, molto più di quanto s’immagini. Trasparenze su trasparenze – è solo questione di tempo – ci raccolgono, galleggianti sulle onde del viaggio. Le immagini emergono, a tratti, nello svolgersi dei versi: segnano il corso delle difficoltà a cui Biagini si orienta, volendo bene al lettore, al bene della vita che ci riguarda – come un rotondo sciabordio riportante all’infanzia con i suoi spazi da riempire. Fino all’avvento del dialogo, del “tu” che sarà svolta d’epoca. In questo aiuta l’emersione dei luoghi geografici, puntigliosamente radunati pagina dopo pagina. La lingua s’appoggia, per non distorcersi (causa il deflagrante pianeta), su una mappa precisa, dove le zone provinciali sono fotogrammi anche più precisi delle città rievocate.
In L’intravisto si scruta una specie di foresta, dopo aver allungato il passo dai suoi confini all’interno, frondoso, d’infinite estinzioni sentinella, e d’altrettanti sviluppi sotterranei – il viaggio a ritroso si stacca dalle latitudini, ma per la poetessa il ritorno verso l’origine conta sullo sguardo obliquo, capace di sorprese nonostante “torti trafori” e gallerie che fanno rimbalzare indietro il passo. L’inciampo, al dunque, svela le radici ai piedi. La miniera è una raccolta di pietre, evidenza delle residenze d’origine: «raccogliamo certi sassi / che spremuti ci riportino a gocce dentro casa». I versi, più che mai in questa raccolta, sono un orlo alla biografia composta con precisione fra il calore dei ricordi e quanto rimane dopo che il vulcano – cospargendo ceneri e “impietrate” – ha terminato di levigare il terreno.