Sulla morte di Sylvia Plath, suicida all’età di trentun anni, si è detto e scritto molto. Che a distanza di oltre mezzo secolo la sua storia personale, indissolubilmente legata alla sua produzione artistica, possieda ancora una forza e un’urgenza impellenti, dice molto sia sull’importanza dell’opera letteraria della poetessa e scrittrice statunitense che sullo status della donna (e in particolare della donna artista) nella società contemporanea.
Elin Cullhed sceglie tuttavia di non parlare della morte di Plath, ma del suo ultimo, intenso anno di vita. E sceglie di farlo con un romanzo a metà strada tra realtà e finzione, in cui la ricostruzione fedele degli avvenimenti – il trasferimento da Londra alla campagna, la nascita del secondogenito Nicholas, la fine del matrimonio con Ted Hughes – è affidata alla voce “immaginata” di Sylvia Plath, che Cullhed fa parlare in prima persona con uno stile che in qualche modo ricalca, senza forzature, quello dell’autrice americana; è facile, leggendo d’un fiato Euforia, cedere all’illusione che sia realmente la poetessa a scrivere di sé. Ne risulta per il lettore una totale immersione nel mondo conflittuale e ardente di Sylvia, un tuffo nelle profondità del suo animo tormentato. Cullhed, che con questo suo primo romanzo per adulti si è aggiudicata il più prestigioso premio letterario svedese, il Premio August 2021, è maestra nel far emergere i sentimenti contrastanti che attanagliano l’autrice della Campana di vetro, imprigionata in una morsa che le sarà fatale tra l’amore per il marito e i figli e il senso di soffocamento e di rinuncia che la vita domestica le induce.
L’intera vita di Plath, con il suo triste epilogo che risuona ancora oggi così prepotentemente nell’immaginario contemporaneo, è qualcosa che al tempo stesso respinge e attrae per la vicinanza che ispira, e che Cullhed centra pienamente attraverso un linguaggio d’intimità disarmante, audace e disperato, che più si avvicina all’abisso e alla morte più si fa vivo e incisivo. Euforia è un grido di dolore intervallato da momenti paradisiaci, è una discesa negli inferi nella depressione e una risalita verso le vette della creazione artistica, è uno schiaffo al perbenismo e ai danni che possono derivare da una società rigida che ingabbia gli individui in ruoli prestabiliti. Cullhed ha saputo creare per Plath una voce potente e moderna, che penetra a fondo nel suo vissuto personale e al contempo parla di e a tutte le donne che sono chiamate ogni giorno a scegliere tra le proprie ambizioni e la dedizione alla famiglia.
Ciò che permane, e che rende crudelmente strazianti anche le pagine più quiete, è la lucidità di Plath sulla propria condizione: “La mia realtà cambiava forma ogni minuto […], un momento ero in pace un altro ero felice, un terzo ero disperata un quarto piangevo, sudavo, avevo nostalgia, desideravo e speravo. Niente di tutto ciò poteva davvero essere preso sul serio.”
Eppure, tutto è tremendamente serio per la poetessa, che s’infiamma di desiderio – desiderio d’amare e, soprattutto, d’essere amata – e di gelosia per il marito, che scoppia di tenerezza per i figli che amorevolmente accudisce mentre al contempo soffre per la gabbia senza uscita della maternità, che la costringe a essere altro da ciò che per tutta la vita aveva immaginato per sé stessa. Lei sogna di ritirarsi in mansarda a scrivere, ma è soltanto il marito riesce e può portare avanti la sua vita da artista: “Lui poteva rimanere nell’ombra ed essere uno scrittore, prima di tutto. Io dovevo appartenere ai bambini, non avevo scelta.” E se già conosciamo la fine della storia, ripercorrerne le tappe illumina da una parte il lato umano di una vicenda che nel passare dei decenni si è ammantata di leggenda, mentre dall’altro fa luce su aspetti e difficoltà che, in modo meno estremo, possono essere condivise da molte donne, a cui Cullhed con il suo Euforia sembra voler tendere la mano della letteratura, offrendo un ponte verso nuove possibilità.