Elif Shafak, nata a Strasburgo e di origini turche nel 1971, è una autrice riconosciuta a livello internazionale a partire dalla pubblicazione de La bastarda di Istanbul (2006, edito Rizzoli), amata per la sua prosa magnetica e che al contempo riesce a sollevare grandi spunti di riflessione storico-sociali. L’isola degli alberi scomparsi, candidato al Book Women Prize del 2022, è uno dei libri forse più difficili dell’autrice, poiché si muove durante un intero secolo in un territorio non sicuro.
La storia che Shafak intesse è quella di Kostas e Defne, inizia nel 1974 e si muove fra due isole: una è Cipro, isola madre di due culture ed etnie divergenti (ancora oggi), la turca e la greca, l’altra l’Inghilterra, luogo in cui i nostri protagonisti si spostano per vivere liberalmente, guardando a una terra promessa, consapevoli della condanna che li allontanerà per sempre dalle loro famiglie. Kostas e Defne, benché appartenenti allo stesso suolo sono figli di culture diverse: il primo è un greco cristiano, mentre la seconda una turca musulmana, ma già da giovanissimi si piacciono e cercano una via per fare in modo che la loro relazione possa esistere. Il primo luogo in cui possono condividere una parziale intimità è rappresentato da una taverna chiamata Il fico allegro, gestita da due uomini, Yusuf e Yorgos: locale suggestivo, poiché sprovvisto di un tetto, ma avente al suo interno una enorme pianta di fico a proteggere l’intero perimetro con le sue fronde, anch’essa grande protagonista di questo romanzo, che a capitoli intermezzi prende voce nell’intrigo della trama, e arricchendo quella che potrebbe sembrare una banale love story con vicende storiche, nozioni di scienza, problemi di natura morale e molto altro. Le radici della pianta affondano nella natura stessa dell’isola per svelarla in ogni suo particolare.
La città in cui i due si ritrovano, Nicosia, da sempre contesa, non solo dai greci e dai musulmani che hanno cercato di rivendicarla, ma anche dai colonialisti inglesi, che dal 1800 hanno piegato l’intera popolazione dell’isola, e che di fatto non l’hanno mai abbandonata, avendo tuttora l’Inghilterra delle basi militari sul suo perimetro. L’anno in cui Shafak decide di cominciare il suo racconto risulta inoltre essere cruciale: difatti nel 1974 da parte dell’ONU – dopo un tentativo musulmano di conquistare l’intera isola – è stata istituita una linea di confine demilitarizzata denominata Linea Verde, colore scelto appositamente per evitare qualsiasi faziosità e per dare una parvenza gestibile a un contesto che gestibile non è, addirittura inasprendo lo stesso conflitto ed esacerbando una divisione di cui nessuno vuole farsi carico.
Cipro rimane, agli occhi di chi la abita e la vive negli anni, un paradiso in terra: non si contano le pagine dell’autrice dedicate alla fauna e alla flora dell’isola (molte fotografie arricchiscono il volume), e alla capacità di adattamento dei suoi abitanti e di come questi riescano a fare usufrutto di ciò che vi cresce, nonostante l’aridità del terreno. La stessa taverna che accoglie Defne e Kostas è attraversata dai piatti tipici e creati con materiali autoprodotti che contemplano entrambe le culture, ma chi ha letto altre opere di Shafak sa quanto l’autrice non dia mai per scontata la potenza della convivialità: un’arte così potente da essere in grado di riunire le persone alla stessa tavola sommando tutte le controversie. L’incipit del romanzo in realtà diverge compiendo un salto temporale: si racconta, durante il 2010, della figlia di Kostas e Defne, l’adolescente Ada che si relaziona con difficoltà al lascito genitoriale che le è scomodo e oscuro. Solo conoscendo la zia materna, Meryem, riuscirà a definire contenuto e contorni delle proprie fitte radici.
Il libro da molti è stato definito non il migliore dell’autrice, questo è dovuto a quello che sembra essere uno strato di separazione dal lettore, uno scarto creatosi sicuramente nel momento in cui si cerca di conciliare le vicende di un intero popolo con la pagina scritta. Ma Shafak, con maestria, decide di sfidare il classico topos dell’eroe in viaggio, con una trama mai strettamente lineare ma continuamente spostata, tramite flashback, in luoghi ed eventi eterogenei. Non manca l’intrattenimento dei colpi di scena che infine dimostra come tutte le storie – e le vite – non abbiano mai un finale dal gusto pieno, ma più spesso dolce-amaro.