Capitano storie che si leggono come fossero delle poesie. Capitano anche, a volte, storie che scorrono come musica, quasi fossero una melodia continua, ritmata dal suono dei passi dei personaggi e delle loro vite. È questo il caso del romanzo d’esordio di Elena Panzera. In questa canzone c’è Michele, un ragazzo di ventitré anni la cui vita è profondamente legata e intrecciata a quella della sua gemella Francesca. Come una melodia, il romanzo è cadenzato da tre movimenti, il cui culmine è il loro esame finale al conservatorio, dopo il quale i due gemelli prenderanno strade diverse. Così come la musica gioca con le note in uno spartito fino a prendere vita, Michele racconta la sua storia intrecciando le parole fino a fare del passato e del presente un solo movimento, una sola battuta, una sola canzone.
Il tema musicale è la solitudine – una solitudine che Michele prova quando non si trova vicino a Francesca, quando aspetta che ritorni quando esce, quando si trova lontano. Sente di esistere veramente, di essere tangibile, solo in relazione a lei – come se fossero due note che solo assieme creano musica, ma se isolate il suono pian piano svanisca nel silenzio. Michele è taciturno, silenzioso, attende pazientemente che gli avvenimenti accadano senza sapere come affrontarli. Francesca, invece, riempie la stanza con la sua persona, è vivace, insegue la vita. Non sorprende quindi la vena malinconica della narrazione che, seppur somigli a una dolce melodia suonata al pianoforte a quattro mani, rispecchia il carattere di Michele, la visione di quello che lo circonda, i suoi pensieri, la sua solitudine – una canzone che emoziona per la sua tenerezza. L’esame finale al conservatorio rappresenta l’ultima canzone – l’ultimo momento in cui saranno ancora un tutt’uno, come sono sempre stati suonando al pianoforte – e l’inizio della loro vita, senza l’altro.
La musica sembra talvolta volgere al silenzio quando la narrazione tocca la storia dello zio Michele – da cui il narratore ha ereditato il nome –, fratello del padre spesso assente e venuto a mancare un mese dopo la nascita dei gemelli. Sembra volga al silenzio perché Michele sente di aver ereditato dallo zio lo stesso tipo di solitudine che avvolge tutti coloro che l’hanno conosciuto: i suoi genitori, suo fratello – ma anche il suo compagno Renato, malato di AIDS, che Michele conosce solo da una vecchia fotografia.
Il padre di Michele e Francesca, Cesare, è attraversato da una musica malinconica fatta delle stesse note di quella del figlio – ma questo sembra bloccarlo nell’avvicinarsi troppo a Michele, come se vedesse in lui non solo lo stesso nome del fratello, ma la personificazione di quello che ha perso. E quando perde il padre e realizza di essere rimasto l’unico membro del nucleo famigliare originario ancora in vita, Cesare forse sente la solitudine bussare alla porta e finisce per farla entrare. Anche Palmira – una cara amica di famiglia, unica superstite della strage ferroviaria di Viareggio che si portò via il marito e la figlia una notte del 2009 – affronta la solitudine come può: capeggia la lotta per portare giustizia nei processi giudiziari sulla strage e non si perde nemmeno un’udienza. Ogni personaggio la percepisce e la fronteggia in modo diverso – Michele attende, Cesare viaggia per lavoro, lo zio Michele scriveva rime sul retro delle fotografie di quand’era stato militare, Palmira lotta contro il sistema giudiziario italiano – ma la solitudine è come un faro che finisce nell’illuminare il posto vuoto accanto a loro, una volta occupato da qualcuno che non c’è più.
Panzera crea una moltitudine di solitudini – diverse, ma somiglianti – che compongono una dolce melodia. E così come “i salmoni aspettano agosto” per risalire il fiume e tornare a casa, così a Francesca e Michele basterà suonare insieme il pianoforte per tornare a essere una sola solitudine.