Ora che Elena Ferrante e le sue storie si stanno facendo conoscere anche tra chi non apre un libro, grazie all’adattamento televisivo frutto di una co-produzione italo-americana (visto che la Ferrante, o chiunque si nasconda dietro questo pseudonimo, ha goduto di un successo all’estero decisamente insolito per uno scrittore italiano contemporaneo, fatto salvo Camilleri), ci perdonerete se riproponiamo la recensione del primo romanzo della serie scritta da Elio Grasso in tempi non sospetti, e pubblicata sul numero 95 di PULP Libri, del gennaio-febbraio 2015.
Elena Ferrante, L’amica geniale, e/o, pp. 336, euro 18,00
Elena Ferrante appartiene alla scrittura come i vicoli delle città di mare appartengono a quest’ultimo, hanno i loro percorsi nelle viscere amate o deplorate della gente comune. Spaccanapoli o Via Prè non fa differenza, i dialetti vanno e vengono sulle pelli sudate e sotto i vestiti delle belle di turno alle prese con diavoli e angeli. Con L’amica geniale l’autrice torna alla storia di un abbandono: come accadeva nel primo sorprendente romanzo, L’amore molesto, qualcuno vuol far perdere le tracce, lontano da un folto gruppo di personaggi. Due in particolare, femmine che da bimbe possono salire verso la casa dei mostri, del mostro per antonomasia, che poi si rivela genitore di una stirpe di vandali dell’animo. E che comandano la strada sotto i loro passi. Lila e Lenù, crescendo marciano alla conquista di una lingua, e per farlo trafiggono come fossero lanciatrici di pugnali. Due bimbe, poi adolescenti, mettono le loro e bellezze e intelligenze «diverse» al servizio di un quartiere che sta alla rinfusa dentro anni difficili e cattivi, rugosi ma trepidanti. Anni che diventano mezzo ‘900. Ferrante, scrittrice che della clandestinità ha fatto apprezzabile regola vitale, in questo romanzo mette sulla strada corpi sanguigni che fanno crescere il loro cervello attraverso gesta eroiche e gesta di semplici teppistelli. La scuola e il saper scrivere, il saper vedere oltre i confini murati del quartiere, la volontà ferrea e le più becere inquietudini, ereditano una forte sostanza. È la capacità dell’autrice di sferrare attacchi alla lingua italiana, dove non ci si aspetterebbe, a far volare il romanzo come per oltrepassare distanze enormi. Tutte temporali, in questo caso. Quel che le protagoniste imparano ci giunge coloratissimo davanti allo sguardo e la loro rincorsa diventa la nostra. Come reginette consapevoli d’essere parte di una letteratura senza tempo, sbagliano rotta e si correggono, stanno con i ragazzi e le famiglie violente del rione, vedono mutare i loro corpi e s’intrecciano all’evolvere del tempo che macina fino a consegnarle al futuro che verrà. Così come verranno i successivi capitoli, annunciati, di una narrazione che dagli anni ’50 arriva fino a noi.