Quando Edward Osborne Wilson scrive On human nature nel 1977 è già un biologo di fama mondiale, grazie ai suoi studi rivoluzionari sulle formiche e sugli insetti sociali ma anche al putiferio sollevato due anni prima con Sociobiology: The New Synthesis, il testo dove per la prima volta teorizza una disciplina che si collochi tra la teoria dell’evoluzione e le scienze umane. Che funga anzi dialetticamente da “anti- disciplina” tra le due, un po’ come la chimica collega il mondo della fisica a quello della biologia. Gli umanisti, sociologi in testa, non la prendono bene e dalle università le accuse di determinismo genetico piovono sull’autore, in special modo da sinistra, comprensibilmente alla luce delle precedenti incursioni del darwinismo nelle scienze sociali, da Herbert Spencer all’eugenetica nazista. Wilson non si arrende e On human nature più che una replica ai suoi critici – come spiega nella prefazione del 2004 – è fondamentalmente una discussione articolata (ma a braccio) delle sue tesi, per dissipare “incomprensioni” ed “equivoci” con i colleghi umanisti.
Prima di capire come, però, un po’ di contesto. Il libro esce al termine di un ventennio che tra i ’60 e i ’70, oltre a consolidare i progressi della genetica, ha modificato anche nel senso comune la percezione della storia, grazie soprattutto alle scoperte di geologi, paleontologi e paleoantropologi. La Storia con la maiuscola sta diventando deep history e abbraccia ora anche quella non documentale e la storia naturale stessa. La cosiddetta “preistoria”, quell’oscuro evo umano lungo due milioni di anni che separa l’Homo Habilis dai primi insediamenti di Çatal Hüyük, è ora diventato un po’ meno oscuro e alieno. Il progresso scientifico in realtà preme sulla visione tradizionale degli storici almeno dai tempi di Lyenn e di Darwin. Secondo Wilson i manuali scolastici di Storia Generale che partono da 4-5.000 anni prima di Cristo si limiterebbero in fondo a sostituire l’Eden biblico della Genesi con la Mesopotamia. Ma, soprattutto, il nostro cervello – meravigliosamente orientato all’apprendimento – è esso stesso un prodotto di questa “preistoria”, non è una tabula rasa. La nostra destinazione sarà pure la Luna ma molti dei nostri geni ci arrivano dal Paleolitico.
L’altra importante novità da tener presente riguarda la teoria dell’evoluzione e l’ingresso, nei primi anni ’60, della selezione parentale (kin selection) di Hamilton tra i principi evoluzionistici riconosciuti dalla comunità scientifica. Detto in altri termini, la selezione non premia soltanto gli organismi più adatti a sopravvivere e a moltiplicarsi ma anche quelli che come specie sanno sacrificarsi per il bene dei loro consanguinei. Questo principio “altruistico”, basato su un’equazione matematica, introduce per la prima volta nel canone darwiniano un elemento di cooperazione tra gli individui che sembra tagliato apposta per i mammiferi. Wilson nel libro appoggia entusiasticamente la kin selection, salvo poi, molti anni dopo, respingerla in favore di un’ipotesi più estesa di altruismo competitivo, allargata ai gruppi e non solo ai familiari (incrociando anche in questa occasione il fioretto con l’eterno arci-rivale Richard Dawkins).
Con queste premesse On human nature, offre soprattutto la visione avveniristica e multidisciplinare di una scienza a venire, sociale ma definitivamente emancipata dall’antropocentrismo a cui gli eredi di Durkheim, Marx e Weber esiterebbero a rinunciare. Dagli esempi di Wilson emerge piuttosto un parallelismo simpatetico con gli approdi di antropologia e neurologia. Almeno in parte le sue ipotesi si possono oggi riconoscere sia nella psicologia evolutiva, in un ordine disciplinare che ha inteso stressare il nostro debito neurologico e evolutivo con il Paleolitico, sia nell’epigenetica sociale, volta, all’opposto, a rilevare nell’attività umana correlazioni tra processi biologici, pressione ambientale e sociale. Ma al momento Wilson sa bene che anche l’incidenza dei geni sui comportamenti sociali più comuni (aggressività, tabù dell’incesto, ruoli di genere, ecc.) non è suffragabile. Prove scientifiche che permettano di collegare al bios la plasticità dei nostri adattamenti culturali non ce ne sono e dunque la predittività della nuova disciplina sta a zero. Tuttavia, non rinuncia a una prospettiva di lungo termine che è poi l’obiettivo del saggio: “Secondo me il comportamento sociale umano contemporaneo comprende sviluppi ipertrofici delle più semplici caratteristiche della natura umana, riuniti in un irregolare mosaico. Alcuni di questi sviluppi, come i particolari della cura dei bambini e della classificazione della parentela, rappresentano soltanto lievi modificazioni, che non hanno ancora celato le loro origini pleistoceniche. Altri caratteri, come le religioni e la struttura di classe, rappresentano trasformazioni così macroscopiche che soltanto con una stretta collaborazione tra antropologia e storia possiamo sperare di ricostruire la loro filogenesi culturale risalendo fino ai loro rudimenti di repertorio dei cacciatori-raccoglitori. Ma col tempo anche queste vestigia potrebbero essere suscettibili di una descrizione statistica comparabile con la biologia”.
L’immagine che fornisce è quella di una sfera che, rotolando da una collina, a ogni sobbalzo muta direzione in un percorso non prevedibile, adattandosi a scanalature invisibili a occhio nudo ma non per questo inesistenti o infinite. La sfera siamo noi, la collina il nostro patrimonio genetico, il percorso l’apprendistato della specie umana su questo pianeta, la nostra storia naturale e sociale.
Nel farlo Wilson pone questioni di enorme portata, in anticipo sui suoi tempi: se lo scopo della sessualità – con i suoi costosi rituali di corteggiamento – non è la riproduzione ma la varietà dei geni e, in ultima analisi la biodiversità, omofilia e identità queer rappresentano oggi un marcatore evolutivo nel pool della specie umana? La scienza che, ponendo la credenza religiosa come oggetto, la analizza, divertendosi a smontarla, riuscirà mai a rimpiazzare anche la sua funzione sociale con una vera mitopoiesi? In che misura i comportamenti e i valori dettati dalla “natura umana”, cioè poi pleistocenica, saranno ancora un riferimento in un’epoca in cui potremo manipolare i nostri geni a piacimento? Il grande biologo rimanda ovviamente al futuro queste risposte ma per molte di esse il futuro sembra adesso.