In bilico tra la favola e la realtà, Edith Holler è la storia di una bambina, di un teatro, di un mondo immaginario e di un mondo passato. Colpita da una maledizione che le impedisce di lasciare il teatro, pena il crollo dello stesso e la sua morte, Edith studia e scopre gli orrori nascosti nel passato apparentemente glorioso di Norwich, città inglese dove è ambientata la storia. Decide di metterli in scena, mostrando finalmente la verità. Con l’aiuto di fantasmi, tarli e ragni, sfidando il mondo adulto, la matrigna, il padre, e rischiando più volte la sua stessa incolumità. Un romanzo speciale e bellissimo sulla magia del teatro, sulla forza dell’immaginazione e su come, alla fine, siamo fatti delle storie che sappiamo raccontare.
Che bello l’incontro con Edward Carey. Bello aver lavorato sulle domande prima, un modo per approfondire la lettura ancora diverso da quello che si fa per una recensione. Bello ascoltare un inglese pulito, liscio.
Edward Carey è un signore inglese dai modi gentili, era appena atterrato in Italia ed entrando nella sala dell’hotel in cui avevamo appuntamento, la sua valigia con la giacca appoggiata sopra era la prima cosa che si vedeva, un tocco di nonchalance molto british. E poi si vedeva il libro, sul tavolo, io lo vedevo per la prima volta, con quella bellissima copertina disegnata dallo stesso Carey. Ce ne sono diversi, di disegni di Carey nel romanzo, che oltre ad essere molto belli e molto inquietanti, ne sottolineano il tono fiabesco.
Ed ecco che cosa ci siamo detti con Carey, abbastanza parola per parola.
Anna da Re Lei conclude il romanzo con una sorta di postfazione, in cui dice che gli è venuto in mente durante la pandemia, pensando ai teatri che avevano chiuso e non si sapeva se avrebbero mai più aperto. Edih, la sua protagonista, vive chiusa nel teatro, e l’assenza di distrazioni da parte del mondo esterno sembra intensificare la sua vita interiore. Secondo lei per creare c’è bisogno di un certo isolamento? È quantomeno vero per lei?
Edward Carey Direi di sì. L’isolamento può aiutare ad ascoltare la propria voce interiore. Edith è un personaggio che si nutre della propria fantasia, anche perché viene sempre messa a tacere dagli adulti, deve sempre restare in silenzio. Quindi si mette a scrivere. Il romanzo è una storia di scrittura, di come la scrittura sia un modo per farsi ascoltare. E durante la pandemia, il silenzio e l’isolamento in cui come tutti mi sono trovato, sicuramente è stato utile per creare.
A.d.R. Il teatro è al centro del suo romanzo e direi di tutta la sua produzione artistica. Il teatro è quindi ancora un modo efficace per raccontare il mondo?
E.C. Sicuramente. Io sono inglese e come tutti gli inglesi sono cresciuto con Shakespeare, che è la nostra medicina, la nostra istruzione, la nostra formazione. Il teatro ci dice cos’è un essere umano, ci racconta tutto della vita, tutto quello che c’è da sapere. È un distillato della vita. È anche un’esperienza unica, stare seduto tranquillo in una stanza buia, e davanti a te succedono cose terribili, davanti a te vedi il caos della vita. Il teatro ci racconta il mondo, ed è un peccato che sia stato quasi completamente distrutto. La pandemia ha fatto chiudere moltissimi teatri, alcuni in maniera definitiva, non hanno più riaperto. E spesso i teatri che hanno riaperto sono costretti a fare solo intrattenimento, musical, cose così. È un vero peccato, una grande perdita. E credo sia così anche in Italia.
A.d.R. Già… I bambini anche sono al centro del suo romanzo. La voce narrante è una bambina, eccezionale eppure normale, e sono bambini anche le vittime (come spesso nella realtà). Per quale motivo ha scelto il punto di vista dei bambini?
E.C. Ho scelto il punto di vista dei bambini perché oggi, tra la Brexit e il cambiamento climatico che incombe, i bambini stanno ereditando un mondo terribile, invivibile. La loro voce è silenziata, nessuno li ascolta, nessuno si preoccupa per loro. Addirittura in America, dove vivo, lo stato ritiene accettabile che ai bambini si spari. Non è un mondo nel quale si vorrebbe vivere, non è un mondo che è giusto che i bambini subiscano. Per questo ho voluto raccontare dal loro punto di vista, dare loro una voce.
A.d.R. Come nelle fiabe, anche in questo romanzo i bambini finiscono per essere mangiati. E l’atto del mangiare, con dei tratti spesso animaleschi, torna ripetutamente nel libro. C’è un motivo particolare per questo?
E.C. Le fiabe sono vere, ci raccontano cosa siamo. Le fiabe antiche, non quelle rielaborate e falsificate da Disney, non sono leggere. Perché parlano della vita e della morte, e di come si può sopravvivere. Sono anche molto teatrali, e infatti spesso vengono messe in scena, e permettono alla realtà, anche la peggiore, di irrompere nella scena in un modo che è fortissimo ed efficace. Le fiabe sono la realtà, sono una verità camuffata e per questo ancora più reale.
A.d.R. La figura della matrigna anche appartiene al mondo delle fiabe. Di Edith non c’è la madre, ma solo la matrigna, cattiva come da tradizione. È una scelta funzionale alla storia o ha anche altre ragioni, magari simboliche o metaforiche?
E.C. Il tradimento della figura materna, della maternità, è un tema che mi sta a cuore. Ma questa particolare matrigna rappresenta anche l’industria, la fabbrica, e la distruzione che l’industria porta con sé. Una distruzione che colpisce soprattutto i bambini. C’è anche un riferimento a Trump, alla sua politica: una volta Trump ha detto che se uccidesse qualcuno in piena Fifth Avenue, non succederebbe nulla. E probabilmente è vero. Ho rappresentato Trump anche nel disegno di Clarence Utting, il fondatore della fabbrica, un uomo molto cattivo e poco intelligente. E la matrigna del mio romanzo, porta appunto in scena la distruzione, uccide un bambino mentre è sul palco, e anche qui non succede nulla, non ci sono conseguenze…
A.d.R. Mi ha colpito il fatto che davanti al teatro ci sia un ospedale psichiatrico. Si attraversa la strada e non si torna più indietro. Fa venire in mente quanto sia labile il confine tra normalità e follia, e quanto il teatro possa essere un contenitore della follia. Mi dice cosa pensa di questo tema?
E.C. Si, è vero, a teatro si può esprimere la follia. Ma le dico questo, il teatro e l’ospedale psichiatrico, a Norwich, sono veramente uno davanti all’altro. Da bambino non me n’ero mai accorto, non lo sapevo, ma quando ci sono tornato recentemente l’ho notato. È stato dopo la pandemia, ed è stato uno shock. È come se si parlassero, queste due entità: nell’ospedale psichiatrico si possono sentire le urla di follia di Re Lear, e nel teatro si possono sentire le urla dei folli ricoverati. In questo senso il teatro è davvero un distillato dell’umanità.
A.d.R. Il suo è un romanzo fuori dal tempo. Sia perché è ambientato in un teatro, che è per eccellenza fuori dal tempo, sia perché ha questa dimensione favolistica. E nonostante ci sia una data precisa di inizio della storia. Mi dice qualcosa di più sul rapporto tra la scrittura e il tempo?
E.C. Il romanzo è suddiviso in cinque atti, come tutte le opere di Shakespeare, e il quinto atto è l’opera vera e propria, quella che viene rappresentata sul palco. Il romanzo si svolge in un arco di tempo preciso, dal solstizio di primavera al solstizio d’inverno, e in quel tempo Edith passa dall’avere 12 anni all’averne 13, diventa una teenager. E da teenager, nel quinto atto, vede la sua opera rappresentata, anche se non sa se sia davvero la sua opera. Ma questa confusione, questa incertezza, per cui non si sa se il quinto atto sia frutto della fantasia di Edith o sia qualcosa di reale, è una confusione che ho voluto lasciare, nel romanzo. Non volevo dare una risposta. Inoltre il 1901 è l’anno della morte della Regina Vittoria e del crollo dell’impero britannico. Che mi sembra paragonabile a oggi, in cui la Brexit ha fatto crollare la Gran Bretagna, o meglio la sta facendo marcire.
A.d.R. Edith è alla ricerca della verità, e sente la necessità di farla conoscere a tutti, la verità. Secondo lei il teatro è il luogo dove finalmente si racconta la verità?
E.C. Il teatro mostra la verità, direttamente o attraverso delle metafore. Quindi sì, ed è per questo che mi sento davvero triste di fronte a quella che mi sembra la distruzione del teatro. C’è un attacco alle arti e alle discipline umanistiche, che sta avvenendo in questi anni, e che è terribile e dannoso. Il teatro mostra in modo esasperato il potere dell’arte. Non bisogna dimenticare che è stato Beaumarchais con Le nozze di Figaro a dare l’avvio alla rivoluzione francese…
A.d.R. Edith dice che la gente va a teatro per fuggire ai propri problemi, per sentirsi libera, anche se per poche ore. Si può dire la stessa cosa della letteratura? È la narrazione, comunque avvenga, che ha questo potere su di noi?
E.C. Sì, certo. La letteratura ci dice chi è l’uomo. Non lo sapremmo, senza la letteratura, non potremmo saperlo. Senza la narrazione, senza le arti, senza le storie non sapremmo chi siamo. Una nazione che non ha arte è una nazione fascista, una dittatura.
A.d.R. A teatro l’impossibile diventa possibile (dice sempre Edith). Possiamo dire lo stesso della letteratura? Ed è questo che la rende ancora così necessaria?
E.C. Si, certo, il teatro è una magia. È una stanza dove le regole possono essere violate. È chiuso, è come la pandemia. Ma da quella stanza chiusa possiamo viaggiare ovunque. Se siamo a teatro e qualcuno dal palco ci dice “sono una fata” gli crediamo (pensiamo al Sogno di una notte di mezza estate). Lo stesso avviene con i libri.
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Concludiamo questa conversazione dolce/amara, Edward Carey e io, dicendoci che continueremo a fare quello in cui crediamo e che pensiamo necessario: lui a scrivere libri, io a raccontare libri, entrambi cercando di diffondere storie e narrazioni.