Eduardo Kohn / Il senso del mondo

Eduardo Kohn, Come pensano le foreste, tr. Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri, Nottetempo, pag. 448, euro 19,00 stampa, euro 10,99 epub

Apparso nove anni fa, How Forests Think (2013) è diventato rapidamente un classico per il pensiero antropologico che studia l’essere umano anche dal punto di vista dell’essere non umano, e quindi al di là delle determinazioni e del “mondo” costituito dalla cultura e dalla sua rete simbolica. Con questo lavoro al tempo stesso elegante, chiaro, rivoluzionario, Eduardo Kohn (un dottorato all’Università del Wisconsin e un’esperienza etnografica di diversi anni tra le popolazioni dell’Alta Amazzonia) ha consegnato al mondo scientifico un’ipotesi destinata a pesare, comunque la si consideri,  sui confini disciplinari che, dalle rispettive postazioni, autori come Eduardo De Castro, Philippe Descola – con le ricerche sull’animismo amazzonico –, e, da altra angolazione, Bruno Latour – con la teoria dell’attore-rete – avevano portato a espandere e a rinegoziare. How Forests Think è un testo chiave che per impostazione è piaciuto soprattutto ai primi, perché affronta e prova a risolvere un problema che risale ai fondamenti dell’antropologia strutturalista. Come ha osservato Descola nel suo commento al volume: “Ciò che Lévi-Strauss a volte chiama la funzione simbolica è una capacità linguistica degli esseri umani di dare un senso al mondo rilevando in esso caratteristiche salienti che possono essere organizzate in insiemi contrastanti.” Ma “Se i non-umani devono diventare agenti a pieno titolo, devono essere in grado di sfuggire a questa passività indotta dai simboli”.
E How Forests Think è sicuramente un libro che rivolge lo sguardo lontano, ma anche un testo programmaticamente ibrido, poeticamente aggrovigliato: una ricognizione teorica radicale intervallata dalla ricerca etnografica sul campo, tra i Runa dell’Alta Amazzonia, in  Ecuador; un testo dove ogni elemento che emerge dalla aneddotica si rivela poi annodato a doppio filo a una riflessione lucida, vertiginosa che, a partire dalla semiotica animale, ci introduce ai risvolti etici e politici di una possibile ontologia del vivente. Guardato in prospettiva, e al di là delle distinzioni di scuola, siamo comunque dentro alla più generale trasformazione che investe oggi le scienze sociali e che, come osserva Emanuele Coccia, nell’introduzione, ha fatto dell’antropologia “il più grande e vivace laboratorio speculativo contemporaneo, il primo e più importante vivaio delle invenzioni morali e culturali che stanno rivoluzionando il pensiero e i costumi del XXI secolo”.

L’ipotesi di Kohn prende le mosse dal pensiero di Charles Sanders Peirce (1839-1914), uno dei padri del pragmatismo americano, dell’epistemologia e, quanto più importa qui, della semiotica. Nella tripartizione di Peirce, il “segno”, cioè l’anello che nella catena della significazione, grazie all’intervento di un “interpretante”, collega un “significante” a un “significato”, non appartiene necessariamente al linguaggio e al suo intreccio “troppo umano” di simboli e di designazioni. Può, altresì, essere un indice o un’icona, come l’immagine di una preda o una palma caduta, qualcosa che si intreccia anche tangibilmente con il mondo animale della foresta, e con le sue rappresentazioni condivisibili, sotto determinate circostanze, tra “sé” umani e non-umani. A differenza del linguaggio, che prima o poi deve atterrare e poggiare sulla materialità della semiosi iconica o indicale, quest’ultima può prescindere dai simboli umani. O, diversamente, può arrivare a sconfinarvi, quando, ad esempio, replichiamo il verso di un cane nel nostro parlato (“ha fatto wak wak e non wof wof”), provando a reinterpretarlo a nostra volta.  O quando i Runa attivano specifiche procedure sciamaniche (“psichedeliche”) per instaurare qualche tipo di pidgin trans-specie con un animale domestico

Detto questo, non dobbiamo neppure immaginare il “sé” o, per dirla con Kohn, la “seità”, come un omino dentro alla nostra testa (o, se per questo, in quella del giaguaro, l’animale totemico presso la popolazione “nativa”) a pilotare la nostra agentività. Al contrario, come osserva Kohn citando direttamente Pierce: “I segni non provengono dalla mente. Piuttosto accade il contrario. Quella che chiamiamo mente, o sé, è un prodotto della semiosi. Quel ‘qualcuno’, umano o non-umano, che prende la caduta della palma come significante è ‘quell’altro se stesso che sta appunto venendo alla vita nel flusso del tempo’”.  Pierce a parte, che nelle mani dell’antropologo americano si rivela un set teorico semplice e decisivo, il pensiero di Korn si richiama espressamente a Gregory Bateson e alla sua “ecologia della mente”, dovendo poi definire il locus di un soggetto semioticamente non più sovrapponibile all’individuo delle scienze sociali. E, andando oltre, alle alleanze inter-specie di Donna Haraway, un’autrice che ricorre nei passaggi forse più “politici” del libro, rivolti a una prospettiva presente e soprattutto futura.

Questa contiguità tra sé umani e non-umani, non coincide infatti con una forma di l’identificazione uomo-animale ma, al contrario, anima una complessa ecologia–cosmologia dove le forme (i pattern ambientali) e le gerarchie (i codici predatori) contano, come contano per i Runa gli spiriti del passato coloniale bianco e gli agenti del presente repubblicano e liberista che vi risiedono. Storicamente precaria, economicamente sussistente, questa antropologia è inequivocabile, per l’etnografo occidentale, nella diversità della sua ontologia. E, secondo Kohn, ancora riconducibile alla nozione di “pensiero selvaggio”, che l’autore recupera nelle ultime pagine dalla riflessione di Lévi-Strauss, una volta alleggerita dalle incrostazioni antropocentriche e dai suoi limiti semantici. La versione finale diventa quindi: “Le foreste pensano. E quando i ‘nativi’ pensano a questo vengono trasformati dai pensieri della foresta pensante”. Dove al posto di “nativi” possiamo fin troppo scopertamente leggere un “noi” – umani, occidentali, disincantati alle prese con le intelligenze emergenti per contro da una tecnologia sempre più naturalizzata, ma, anche e soprattutto, con un problema epocale di sopravvivenza che chiamiamo Antropocene.
Come pensano le foreste è, infine, un invito a conoscersi attraverso gli altri anche focalizzando l’animalità che condividiamo con tutti gli esseri viventi e pensanti sia pure al di là della nostra (poco inclusiva) nozione di consapevolezza. Cioè, detta bene, a “defamiliarizzare l’umano”. E, ad esempio, a ripensare all’enigma di Edipo e della Sfinge – l’essere che al mattino cammina a quattro zampe, al pomeriggio a due zampe e a tre zampe la sera – come a un modo per relativizzare il concetto di noi stessi. A partire magari da quell’altro concetto di “tempo reale”, così abusato nel nostro lessico e così dilatabile dal punto di vista della Sfinge.