Edoardo Camurri s’intrattiene da molto tempo con Rodolfo Wilcock e Elsa Morante, unendo la parte centrale del suo viaggio a dolcezza, psichedelia e – senza garantirsi alcunché – configurando la propria esperienza (di vita, e magicamente letteraria) nel contrasto alla paura e alle estreme prestazioni. Che sempre più regnano la regione da noi denominata “realtà”. È una foresta, estremo bosco, in cui non si può fare altro che obbedire – spiega Camurri in questo suo primo (forse ultimo, confessa in un’intervista a Antonio Gnoli) libro: una volta venuti al mondo altro non si può fare, introdotti in un gioco di cui siamo protagonisti, come soggetti che fanno ombra. Ed è quest’ombra a generare i dubbi che non ci lasceranno mai.
È vero che sia quasi psichedelica questa tenzone intrattenuta dall’autore per tutte le quasi 100 pagine del suo libro, e che tenta di spiegare come sia il narcisismo – al pari della gravità – a manifestare la grandezza della realtà. Con cui dobbiamo per forza scendere a patti, creando un’epica che ci mette alla prova, e che l’Introduzione di Camurri dispiega con rara concentrazione. «La foresta della nostra iniziazione» passa per il trauma ma anche per il Thauma di Aristotele, e forse l’esperienza psichedelica che qui c’intrattiene è una delle rare vie con cui resistere al mistero tremendo. Non sono le fiabe, si insiste nelle pagine del volume, a iniziarci, e a seguire l’eroe nelle trame oscure del bosco?
Nell’intrico fra Kant e le scelte, le decisioni morali nei diversi spazi e tempi, Camurri intravede le strade sbagliate e capisce come siano state non poche le cose che si sono potute dire alla soglia di quelle che, come in poesia, non si possono dire: è sempre la stessa contesa. Dove il farmaco può fare la sua parte. Al servizio della politica. Che mai è stata tanto cocainica. Ma Camurri, sul terreno battuto da Elsa Morante, difende la forza della preghiera da esercitarsi sulle vie percorribili, dove l’umano (incessantemente destinato all’altro) “nudo e misero trionfi” così come scriveva nel 1998 una delle nostre grandi poetesse: Giovanna Sicari.
Fra gentilezza e ferocia la realtà, di cui ai limiti del possibile l’autore tenta una appassionata ricerca in vivo, destina la propria lingua agli umani tanto che, eternamente connessi, seguono un fiume sempre più grande, in ogni spazio e in ogni tempo possibili. Nessuno resta indietro, è necessario lo sguardo di qualcuno – per ora questo sguardo è nelle possibilità di Camurri, teniamo il punto, dobbiamo approfittarne.