Edith Bruck / L’importanza della memoria

Edith Bruck, La donna dal cappotto verde, La nave di Teseo, pp. 128, euro 15,00, euro 9,99 epub

Una macchia di colore screzia i paesaggi di una Roma deturpata e ingovernabile. L’apparizione improvvisa di una donna con un cappotto verde sconvolge la vita di Lea, alter ego della scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz. Questo l’incipit di La donna dal cappotto verde. Come in Schindler’s list, l’orrore si manifesta in un inaspettato cromatismo che lacera il bianco e nero della scena. Nel film di Spielberg si trattava del cappottino rosso di una bambina, mentre nel libro l’inquietante indumento ricopre le fattezze di una donna anziana. Da quel momento un tarlo divora la protagonista. Chi è quella donna che le ha rivolto inaspettatamente la parola in una panetteria del centro? La ricerca si fa affannosa. Rovistare nel dolore può essere pericoloso.

Bruck rievoca un evento realmente accaduto anni fa nella Capitale, dove la scrittrice di origini ungheresi e naturalizzata italiana risiede. La scrittura come ragione di vita, come esorcismo del dolore e testimonianza imprescindibile. Chi è stato ad Auschwitz non dimenticherà mai, ma il manifestarsi dell’orrore nell’apparente tranquillità quotidiana è ancor più terribile. La memoria è un fardello arduo da sopportare, una condanna a vita. La donna dal cappotto verde è una kapò, un’aguzzina polacca pronta a vessare le donne internate ad Auschwitz per guadagnarsi la sopravvivenza. Lea è combattuta fra il desiderio di incontrarla e la paura di rinnovare il dolore, fra il rancore e il perdono. Chiede consiglio, imbattendosi in opinioni diverse. Anche il marito, poeta più anziano di lei e dipendente in tutto dalla consorte, cerca di farla desistere dal suo proposito.

Questo incontro le farà del male. Il dramma la coglie in piena crisi creativa, mentre la pagina «rimane intatta come un’affamata di cibo». Lea sta provando a scrivere un libro su una protagonista smemorata. Il suo terrore più grande è quello di perdere del tutto la coscienza di sé e la propria identità. Il mestiere di traduttrice le dona una indubbia dimestichezza con le parole eppure, durante quell’incontro, è colpita da afasia. Perdere la parola equivale a perdere sé stessi. Nella finzione Lea si reca a casa dell’aguzzina, rischiando la propria sanità mentale per conoscere la verità. Il trauma la porta quasi a smarrire la memoria. Ricoverata in ospedale, soffre gli incubi di un’esistenza fantasmatica, al limitare del nulla. Nessuno sembra accorgersi di lei.

Nella realtà Bruck non trovò mai il coraggio di accettare gli inviti, sospetti e pressanti, della donna, né denuncerà mai la sua aguzzina: vorrebbe dire perpetuare l’orrore. «Se non mi sono fatta contaminare dal male lì (ad Auschwitz), sono salva per sempre». Cedere al male significa propagarlo, favorirne la diffusione. Coltivare la memoria è invece un dovere, un atto necessario per tenere alta la soglia dell’attenzione in un mondo perennemente minacciato dall’odio e dalla prevaricazione.