Edgar Selge / La condanna della memoria

Edgar Selge, Finalmente ci hai trovati, tr. di Angela Ricci, Carbonio Editore, euro 19,50 stampa, euro 9,99 epub

Il rapporto con i genitori e in particolare con il padre; una perdita dolorosa come può essere quella di un fratello; trovare un modo non conflittuale di stare nel mondo, di venire a patti con la realtà; relazionarsi con gli altri senza essere solipsisti, rivendicativi o troppo pietosi. Sono questioni che riguardano quasi tutti e di cui tanti hanno scritto, ma è difficile farlo senza barare con sé stessi. Edgar Selge, famoso attore tedesco (1948) al suo debutto letterario (bestseller in Germania nel 2021) riesce in questo intento quasi irraggiungibile. Lo fa accostandosi lentamente, senza dare giudizi – neanche quando forse ne avrebbe ben donde – alla sua infanzia: a partire dal 1958, bambino con i due genitori e quattro fratelli, nella cittadina di Herfors in Vestfalia.

Ci sono diversi passaggi temporali nel libro ma nella maggior parte del tempo noi lettori siamo tenuti stretti là, in quei conturbanti anni Sessanta della Germania post-bellica. Non si tratta mai di un vero flashback, neppure quando il salto temporale è chiaro – ad esempio dopo la prima puntata del presente, nella quale ricorda la morte di uno dei fratelli, Reiner, per lo scoppio di una granata trovata per caso. La cronologia irregolare rende bene le apparizioni non lineari della memoria, le montagne russe dei ricordi. E il passato, che non è ancora passato, lo si può raccontare solo al presente.  «Nel vicinato non c’è nessuno con cui possa parlare del fatto che il tempo non esiste. Proprio qui, accanto al muro, mi chiedo spesso se tutto accada in realtà contemporaneamente e si trasformi in un prima e un dopo solo perché questo è il nostro modo di vivere. Sono incline a crederlo».

Il padre, con un passato filonazista, è direttore di un carcere minorile e musicista dilettante. I due fratelli più grandi sono uno, Werner, musicista – eppure ben poco allineato con il padre – l’altro, Martin, militare. Figure osservate, nell’infanzia, da distanza e alle quali Edgar ritorna anni dopo, per capire, per riempire i vuoti, non solo i pezzi mancanti della storia dei genitori ma anche quelli del rapporto rarefatto e superficiale come spesso è quello tra fratelli. Gli altri due fratelli, uno minore e uno quasi coetaneo di Edgar, sono uniti nel destino non felice né duraturo.

La scoperta di avere un genitore filonazista non dev’essere stata un’esperienza così rara per i ragazzi tedeschi della generazione postbellica (indimenticabile è l’uniforme da SS che Helga Schneider trova nell’armadio della madre: Il rogo di Berlino, Adelphi 1998).  Una rivelazione agghiacciante anche quando scontata, che non riesce a cancellare quel che resta dell’amore filiale o dell’amore e basta (la persona in sé, quella che si ricorda: si pensi, anche se qui i genitori non c’entrano, al bellissimo The reader, 2008, per la regia di Stephen Daldry, dove un ragazzo scopre con molti anni di ritardo chi era stata la donna avvenente che l’aveva iniziato all’amore nella Berlino del dopoguerra).

«Come porsi rispetto alla consapevolezza di aver saputo più di quanto si è disposto ad ammettere? Non sa come uscirne senza cancellare una parte della sua vita» – si chiede Selge interrogandosi sul padre. Un padre che si chiama Edgar anche lui (“Perché non ho un nome tutto mio?” – ha chiesto una volta il bambino alla madre) e che organizza ogni settimana un concerto di musica classica a casa propria, al quale assistono i detenuti del carcere, per mostrare il buono della cultura, la cultura che eleva, perché “quando si assiste a un concerto non ci si può comportare male”. Lui suona il piano, la madre il violino, la musica è la continuità con gli anni precedenti, l’appiglio per pensare che in fondo nulla di irreparabile è mai accaduto.

Il padre è un uomo severo e rude con i figli. Eppure Edgar non riuscirà mai a domandargli perché lo picchiasse, neppure formulando la domanda indirettamente (“Dimmi, papà, tuo padre ti ha mai picchiato?”). Fatica a chiederglielo perché non vuole ammettere di aver amato qualcuno che gli ha fatto del male e che le botte non hanno cancellato quell’amore.

“Di che cosa dovrei essere ancora curioso? In ogni persona che incontro rivedo te, papà. E devo sempre sforzarmi di chiarire a me stesso: questo non è mio padre. Altrimenti non potrei mai interessarmi davvero a nessuno”. Quell’uomo che ha uno spazio enorme dentro di lui, per quanto o forse proprio perché l’ha fatto soffrire tanto – mentre invece a volte Edgar non riesce a ricordare Andreas, l’amatissimo fratello morto con il quale ha condiviso per diciannove anni la stessa stanza – muore su una poltrona logora a orecchioni dopo aver detto “Credo di stare per morire”, senza aver mai messo in dubbio la reale finitezza, e quindi la trascurabilità, del suo passato.

La musica lega i genitori, o sembra legarli, per quanto la madre non sia una eccellente violinista e abbia rifiutato la prima proposta di matrimonio. Una donna simile a tante mogli che continuamente si riadattano e conformano al marito, stuccando e ristuccando tutte le crepe. Nel sogno che il protagonista ricorda la madre, priva di orientamento, lo cerca e poi gli dice “Che bello! Finalmente ci hai trovato”. Lui non la tocca, non la abbraccia, sa che sta sognando. Edgar della musica si sente vittima, è un pianista mediocre, uno studente non buono, distratto e bugiardo; parla veloce e balbetta, fa esattamente quello che sa non dovrebbe fare, rovina la sua reputazione, gioca a bombardare Rotterdam e poi prega per le vittime. Ha una naturale “inclinazione per l’insincerità”, ruba soldi a racconta bugie per andare al cinema. “Non ho nulla da opporre a questa musica, che non mi permette di costruire niente dentro me stesso”.

L’esordio di Selge è una biografia originale dove la tragedia privata è intersecata con le colpe incancellabili di un intero paese, con la acquiescenza e il non detto. La chiave – esemplificativa dei meccanismi inconfessabili che ci fanno andare avanti – è forse in una frase terribile che Selge scrive parlando di Andreas, e qui proprio si capisce che non sta barando, perché quando si bara non si dicono cose del genere: “È stato quando te ne sei andato che ho cominciato davvero a inseguire la vita che volevo”.