In poesia l’età arcaica spesso viene tralasciata in favore di una cronaca a una dimensione, in cui soltanto il reportage del lato minore dell’esistenza trova attenzione. Sembra che la resa di una giornata qualunque, con i suoi arzigogoli, sia superiore a qualsiasi approfondimento di idee storiche o preistoriche. Del resto i poeti, oggi, hanno gusti allenati alle varie qualità di caffè, molto meno alle poetiche e alla sostanza del testo. In pratica, ci si distrae.
Flavio Ermini da molti anni si è assunto il compito di far aderire la propria costituzione filosofica – cresciuta con ritmo imperterrito – alla poesia più netta e meno indulgente. Percorso non privo d’insidie, di maschere e sconsiderate apparizioni. Tenendo conto che in casi del genere il vizio di scrivere sempre la stessa poesia è dietro l’angolo. E alcuni non fanno che ripetere ciò che i filosofi, e meglio, hanno già scritto. Ma, siccome la filosofia non basta e occorrono epifanie più filmiche che scultoree della poesia, Ermini produce le sue varianti melodiche fino al centro di una ricchezza spiraliforme. E lì si concentra, utilizzando gli scorci e le inquadrature della sua originale ricerca poetica.
Edeniche raccoglie poesie di dieci anni, scritte nel secondo decennio del 2000, periodo non facile per nessuno e per nessuna attività umana che non sia quella strettamente tecnologica. Per questo pensiamo che il libro, realizzante il massimo di resistenza intellettuale nel surriscaldato distretto dell’ingiustizia letteraria, sia necessario distinguerlo da tutto il resto.
Edeniche ci parla di stelle e di fuochi, di umanità colta nelle proprie forze residue, di passi dei vivi e non di calpestii di zombie alla moda, di stagioni ancora presentite e desiderate, di esuli tornati al giusto spazio – il contrario di quel che l’azzeccatissima copertina mostra in un fotogramma di L’anno scorso a Marienbad: persone congelate nel bianco e nero di un giardino francese, sotto una luce implacabile.
Ogni poesia tende un’imboscata a chi vuole parlare del più e del meno con destrezza, dimenticando che il linguaggio non è sintomo della realtà ma l’incarnazione di un pensiero che costruisce cambiamento. Ermini non argomenta, né accarezza, ma annuncia un destino, anche difficile, fuori dalla conformità. Può darsi che rischi di aver troppa fiducia in una aurora ancora vaporosa, ma per intanto la cartografia su cui poggiare i piedi è lì, presente e nitida.
Nei confronti del mondo non c’è rassegnazione, e di fronte ai disanimati niente di meglio che una spinta vigorosa da parte di qualcosa di diverso dal solito repertorio fatto di citazioni e nostalgiche rimembranze della rima perduta. Non sappiamo se Ermini volesse davvero presentarci le vestigia di un Eden arcaico, ma è vero che in queste pagine si possono ascoltare suoni e rumori di un cantiere creduto scomparso per sempre. È lì che la lingua ritorna in sé, crea il dissimile per ovviare alle carenze delle generazioni. Può darsi che si tratti d’illusione psichedelica, ma è più certo scorgervi la caparbia insistenza di un libro le cui possibilità stanno tutte all’interno del salto storico in cui siamo immersi.