È successo di nuovo…

Nonostante Twin Peaks sia una serie televisiva, riteniamo che si tratti anche di un fenomeno artistico e più ampiamente culturale che sfonda qualsiasi confine mediatico – per non parlare dell’infinità di riferimenti letterari sparsi nella serie, nonché dei risvolti più prettamente librari di un oggetto dal profilo decisamente transmediale. Non a caso l’autore di questo articolo è uno degli americanisti più attenti al contemporaneo e alle sue derive; perché le scritture di oggi attingono da cinema TV web tanto quanto dalla tradizione letteraria.

E comunque, David Lynch è un’altra cosa…

Dopo più di un quarto di secolo David Lynch è tornato a raccontare, insieme a Mark Frost, i segreti dell’ormai famosa cittadina di Twin Peaks, 51.201 abitanti. Le voci sono diventate ufficiali il 6 ottobre 2014, quando il regista ha annunciato su Twitter: “Sta succedendo di nuovo”, infiammando gli appassionati in tutto il mondo. Mesi dopo il passo indietro: Lynch si sarebbe ritirato dal progetto per sopravvenute divergenze economiche con i vertici del network Showtime. I fan si sono subito mobilitati, avviando sui social la campagna #SaveTwinPeaks, e persino gli attori del vecchio cast hanno diffuso video di supporto per il regista, sul tema: “Twin Peaks senza David Lynch è come…”. Alla fine il maestro ha ottenuto carta bianca: diciotto episodi (invece dei nove inizialmente programmati) di un’ora ciascuno, tutti diretti da lui e scritti con Frost, senza limitazioni di budget o interferenze di alcun tipo. Se vogliamo davvero tornare a Twin Peaks, l’unico in grado di guidarci è Lynch.

“Ti rivedrò tra venticinque anni”: così prometteva Laura Palmer (Sheryl Lee) nell’ultimo episodio della seconda stagione all’agente dell’FBI Dale Cooper (Kyle MacLachlan), inviato a Twin Peaks per indagare sull’omicidio della giovane donna. La scena si svolge nella Sala d’attesa, un luogo metafisico di passaggio verso un’ambigua dimensione ultraterrena che i nativi americani chiamano Loggia Nera (o Loggia Bianca), dove il bene e il male si compenetrano e si contrastano all’infinito; gli abitanti della Loggia sono entità non-umane (tra cui un misterioso gigante e un nano vestito di rosso – “l’uomo che viene da un altro posto”) che comunicano in un linguaggio che è un’approssimazione di quello umano. Qui ci si può imbattere nel proprio doppelgänger, incontrare i morti e interagire con i vivi attraverso i sogni. Viene da pensare che già allora Lynch conoscesse il futuro, come gli spiriti della Loggia, e avesse progettato la realizzazione di una nuova stagione venticinque anni dopo. Del resto, le tende rosse che circondano la sala aprono passaggi verso realtà spazio-temporali alternative, ma ricordano anche un immenso sipario teatrale, oltre il quale va in scena lo spettacolo della vita umana.

Twin Peaks è un fenomeno generazionale, ma soprattutto ha rappresentato un cambiamento di paradigma. I trenta episodi della serie originaria (nonostante un calo di qualità a metà della seconda stagione) hanno rivoluzionato la formula tradizionale di quelle che in Italia eravamo abituati a chiamare telenovele (o, con appena minor disprezzo, telefilm) attraverso una sapiente e innovativa mescolanza di generi: Twin Peaks si presentava come un giallo basato su storie d’amore adolescenziali e non che facevano il verso alle soap opera, con una forte componente sovrannaturale e una tensione che in certi episodi spingeva verso l’horror vero e proprio; ma era anche una storia torbida di abusi, sesso e droga che proponeva un’amara denuncia sociale; una lucida meditazione sul disagio giovanile nella provincia americana che adottava i meccanismi narrativi di un thriller psicologico dai risvolti surreali, comici e grotteschi. A ben guardare, possedeva anche una forte coscienza ecocritica, faceva riflettere sui danni apportati dalla civilizzazione alle culture dei nativi americani, incorporava riferimenti a pratiche di meditazione e al buddismo, accennava a una mitologia inquietante e oscura, lasciava intendere la possibilità di viaggi nel tempo, messaggi dallo spazio, rapimenti alieni. Stephen King aveva esplorato temi simili in It (1986), ma era la prima volta che una serie TV tentava sistematicamente qualcosa del genere.

E infatti, come spesso è destino per le opere veramente innovative, il mondo non era pronto. Nel 1991, in seguito a un calo d’ascolti, la ABC decise improvvisamente di cancellare la serie dopo due sole stagioni, lasciando migliaia di spettatori con un incolmabile senso di attesa, provocato da quello che è forse il cliffhanger più famoso (e frustrante) della storia televisiva (“Come sta Annie?”). Il film del 1992, Fuoco cammina con me, diretto da Lynch e accolto a Cannes con numerosi fischi, si poneva come prequel della serie e, lungi dal chiarire i molti punti in sospeso, apriva semmai altri e più inquietanti interrogativi. Per più di venticinque anni i fan hanno continuato a speculare sulle numerose ambiguità della trama, elaborando teorie raffinate, strampalate, fantasiose e geniali, dapprima attraverso newsletter, poi sui primi siti internet, sui forum, sui blog, e infine su Facebook e Twitter. Dall’inizio degli anni Novanta la fama e il fascino di Twin Peaks sono cresciuti in modo esponenziale di pari passo con la diffusione di internet e dei social network, mentre il valore artistico della serie veniva sancito da saggi e monografie critiche. Per questo il suo ritorno, oggi, sa di evento epocale.

Ed è per questo che molti appassionati italiani della serie originaria si sono ritrovati, da fine maggio a inizio settembre, seduti davanti la televisione alle tre di notte per guardare i nuovi episodi in contemporanea con gli Stati Uniti. In un periodo storico che incoraggia sempre più la fruizione mobile, su tablet, smartphone e laptop, Lynch ha consigliato invece di guardare Twin Peaks, il ritorno su uno schermo grande, con un buon impianto audio, al buio. Possibilmente con i sottotitoli, per non perdere alcuna sfumatura dei complessi (e non sempre chiaramente udibili) dialoghi. I suoni e la musica sono importantissimi nello sviluppo della trama: il primo episodio si apre con il gigante che ordina a Cooper (e implicitamente allo spettatore): “Ascolta i suoni”. Il sound designer è Lynch stesso, che oltre alla collaborazione del fido Angelo Badalamenti, autore della colonna sonora della serie originaria, si è avvalso di artisti di fama internazionale, dai Platters ai Nine Inch Nails, da Eddie Vedder agli ZZ-Top, e di artisti della scena indie come i Chromatics, gli Au Revoir Simone e Lissie: molti di loro si esibiscono durante i titoli di coda di ogni episodio. Il cast di attori è altrettanto importante e prevede, oltre al ritorno di diversi interpreti delle prime stagioni, anche fedelissimi “lynchiani” come Laura Dern, Naomi Watts, Balthazar Getty e Harry Dean Stanton, e guest star del calibro di Jim Belushi e Monica Bellucci, per non parlare di Tim Roth e Jennifer Jason Leigh. Persino durante i titoli di coda gli spettatori sono invitati a fare attenzione: spesso il nome o la vera identità di un personaggio vengono svelati proprio qui.

Nell’epoca dei remake, dei sequel e della serialità a oltranza – retaggio dell’esaurimento dei contenuti già teorizzato da John Barth negli anni Sessanta e di un’iper-consapevolezza strutturale che ha condotto il postmoderno a ripiegare su se stesso perdendo la sua iniziale spinta provocatoria –, tra compiacenti fanfiction che offrono allo spettatore esattamente ciò che vuole e sofisticati effetti speciali senza alcuna profondità di dialoghi o situazioni, Lynch è riuscito di nuovo a rimescolare le carte, rivoluzionando meccanismi narrativi che lui stesso aveva contribuito a rendere popolari. A livello di contenuti, infatti, in Twin Peaks, il ritorno  c’è ben poco di quanto i nostalgici delle prime stagioni si aspettavano – anzi, la sensazione è che gli autori abbiano mirato a stimolare le attese dei fan per poi deluderle in modo quasi sadico, ribaltando sistematicamente situazioni e personaggi: gran parte delle vicende si svolge lontano da Twin Peaks, tra New York, Las Vegas e l’immaginaria cittadina di Buckhorn (South Dakota); l’agente Cooper, eroe senza macchia delle prime stagioni, è scisso in due personaggi, entrambi ben diversi da quello adorato dai fan; il cliffhanger originario, legato alle condizioni di salute di Annie (Cooper si era innamorato di lei ed era entrato nella Stanza Rossa per salvarla) è deliberatamente ignorato – anzi, il personaggio di Annie è stato praticamente cancellato dal mondo finzionale dello show; il nucleo centrale della nuova stagione ruota intorno alla frase apparentemente banale pronunciata da un personaggio secondario (se il compianto David Bowie nei panni dell’agente dell’FBI Phillip Jeffreys può mai considerarsi secondario), apparso brevemente all’inizio di Fuoco cammina con me. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che Lynch ha deciso di girare la stagione come un film lungo diciotto ore, per poi effettuare una scomposizione in fase di montaggio giocando con la cronologia e confondendo ulteriormente gli spettatori; che nelle varie dimensioni parallele dello show il tempo scorre in modalità misteriose; e che il mondo di Twin Peaks ammette la presenza di doppelgänger, tulpa (un termine del misticismo tibetano che descrive delle entità senzienti, specie di golem creati attraverso facoltà mentali o spirituali), individui abitati da spiriti ed entità che assumono sembianze umane, si comincia ad avere una vaga idea del tipo di esperienza disturbante e al tempo stesso eccitante che può costituire la visione di Twin Peaks, il ritorno.

Per tutta l’estate, dopo ogni episodio i fan hanno continuato a proporre sui gruppi Facebook teorie intorno ai moltissimi punti oscuri o ambigui della trama, analizzando dettagli delle inquadrature, riferimenti alla mitologia personale del regista e ad altri film di Lynch, particolari del montaggio, allusioni alle vecchie stagioni, idiosincrasie della recitazione, easter eggs e indizi nascosti da Lynch e Frost appena sotto la superficie (basta googlare “Twin Peaks finale theories” per imbattersi in decine di esegesi, spesso violentemente in polemica l’una con l’altra). Le recensioni online riportavano ogni settimana le teorie più interessanti e quotate, misurando il livello di hype del pubblico e lodando quasi unanimemente l’elevata qualità artistica della regia di Lynch. Gli appassionati della vecchia serie morivano dalla voglia di conoscere il destino dei personaggi abbandonati in medias res venticinque anni prima; i puristi lynchiani godevano delle atmosfere claustrofobiche, oniriche e surreali che caratterizzano i film di culto del regista, da Eraserhead a Mulholland Drive; i neofiti si appassionavano ai nuovi personaggi e cercavano di capire cosa diavolo stesse accadendo sullo schermo.

Il doppio finale di stagione, trasmesso in Italia nelle prime ore di lunedì 4 settembre, ha sconvolto tutti (me compreso), dapprima offrendo nel diciassettesimo episodio l’agognato denouement, per poi decostruire tutto nella fatidica diciottesima ora, arrivando addirittura a “cancellare” le prime due stagioni, quasi a voler togliere ai fan il loro giocattolo preferito. Tutti si aspettavano spiegazioni, continuazioni, chiarimenti; e invece anche quel poco che pareva ormai assodato è stato messo in discussione, negato, decostruito (mi fermo qui per evitare spoiler). Dove trovare le risposte, quando non ci restano più neppure le domande?

A questo punto va evidenziato un aspetto estremamente interessante della serie, specie dal punto di vista di una rivista libraria: Twin Peaks si è imposta sin dall’esordio come prodotto transmediale, travalicando i confini dello schermo televisivo e generando una corposa letteratura che è servita da suo contorno e complemento. Mentre all’inizio degli anni Novanta andavano in onda i primi episodi e tutti facevano ipotesi su “chi ha ucciso Laura Palmer”, fu dato alle stampe Il diario segreto di Laura Palmer (Sperling & Kupfer. tr. Roberta Rambelli, pp. 251, euro 9,78 stampa, euro 7,99 ebook ), un romanzo in forma diaristica scritto da Jennifer Lynch (figlia del regista), in grado di arrivare al quarto posto della classifica dei bestseller del New York Times a ottobre del 1990. A maggio del 1991 Scott Frost (figlio del co-autore della serie) pubblicò L’autobiografia dell’agente speciale Dale Cooper: la mia vita, i miei nastri (Sperling & Kupfer, fuori stampa, tr. Tullio Dobner), contenente le immaginarie trascrizioni delle cassette audio registrate dal protagonista in cui si svela il suo passato. Di risposte, però, neanche l’ombra. Non c’è da stupirsi, quindi, se la messa in onda di Twin Peaks, il ritorno sia stata anticipata da un romanzo scritto da Mark Frost e intitolato The Secret History of Twin Peaks, edito in Italia da Mondadori (inspiegabilmente col titolo Le vite segrete di Twin Peaks, tr. Stefano Massaron, pp. 359, euro 25,50 stampa). Il libro – un testo ampiamente illustrato, strutturato come un dossier dell’FBI – ricostruisce le vicende storiche del territorio su cui sorge la cittadina, da sempre condizionato dalle presenze demoniache della Loggia che erano già in contatto con gli abitanti originari, i membri della tribù dei Nez Percé. Se a tratti Le vite segrete sembra dimostrare come sarebbe Twin Peaks senza il genio visionario di Lynch – un compendio di teorie cospiratorie trite e di personaggi poco interessanti –, non può comunque mancare nella biblioteca di ogni cultore della serie. Inoltre, i fan che sono rimasti frustrati dal finale della nuova stagione possono sperare di trovare almeno parte delle risposte in un nuovo libro, sempre opera di Frost, dal titolo Twin Peaks: The Final Dossier, la cui uscita è prevista a fine ottobre. Al momento, infatti, Lynch non sembra interessato a una quarta stagione.

Twin Peaks, il ritorno è riuscito a reinventare la serie TV – allo stesso modo in cui, ad esempio, Watchmen di Alan Moore e Jimmy Corrigan di Chris Ware hanno reinventato il fumetto – sfruttando appieno le possibilità offerte dal medium e operando un rovesciamento nei meccanismi della fruizione seriale. Uno dei nodi cruciali della narrativa americana contemporanea ruota proprio intorno alla dissociazione temporale, a una nuova percezione della temporalità. Il termine chiave è “differimento”: la fine di ogni episodio, come i link che clicchiamo su internet, rimandano sempre altrove, nel tentativo di prolungare l’esperienza di intrattenimento all’infinito. L’enorme successo delle serie TV deriva proprio dal fatto che il loro nucleo narrativo è basato sul continuo differimento della trama. Non è quasi più pensabile una fruizione tradizionale di un film come esperienza finita, ma si procede settimana dopo settimana, sequel dopo sequel, di stagione in stagione; la storia può (e deve) sempre continuare, il consumo diventa durevole, come il prodotto che si acquista (o si scarica) puntata dopo puntata.

Lynch sposta questo processo a livello strutturale, progettando un infinito differimento dell’interpretazione: ogni episodio allarga lo scarto tra significante e significato, creando un gap che non può mai essere colmato del tutto, ma che apre invece una catena, un’aura di significati (le “teorie interpretative” dei fan) mai definitivi. Alcuni spettatori hanno scoperto che diverse scene di determinati episodi di Twin Peaks, il ritorno, sono praticamente sincronizzate tra loro: osservandole contemporaneamente, i gesti “rimano” tra loro, suoni e dialoghi risultano in sincrono, aprendo possibilità interpretative nuove e impensate; personaggi apparentemente distanti appaiono invece correlati tra loro; eventi ragionevolmente separati da una distanza spazio-temporale risultano contemporanei; qualcuno ha addirittura dimostrato che gli ultimi due episodi vadano guardati in simultanea, perché accadono contemporaneamente in due dimensioni parallele – eventi di un episodio influenzano quelli dell’altro!

Il penultimo episodio si intitola: “Il passato detta il futuro”, ma Twin Peaks, il ritorno dimostra che è quanto mai vero anche il contrario. Non può non venire in mente il concetto, proposto dal filosofo Jacques Derrida, di “futuro anteriore”, un futuro che, ovviamente, non è ancora avvenuto, ma che retrospettivamente influenza e definisce il passato che lo renderà possibile. In questo modo gli eventi della terza stagione influenzano e “cancellano” quelli delle prime due stagioni, lasciando gli spettatori (e il protagonista) in un limbo ontologico, una situazione paradossale che è l’equivalente di una serie TV differita all’infinito. Il simbolo dell’infinito è infatti la “risposta” fornita a Cooper nel finale di stagione, un 8 che ruota e che, nel simboleggiare un nastro di Möbius, riecheggia il loop temporale, narrativo e strutturale su cui si basa l’intero universo di Twin Peaks. Un 8 che rimanda a sua volta anche all’ottavo episodio, vero capolavoro onirico che il New York Times descrive come “qualcosa da vedere e da udire, che suscita reazioni a un livello primigenio”, affermando che “Non c’è niente nella storia della televisione che aiuta a descrivere esattamente quello che prova a fare questo episodio”. Le diciotto ore di Twin Peaks, il ritorno sono un’esperienza dei sensi e della mente. Probabilmente ci vorranno altri venticinque anni per provare ad assimilarle.

(E se qualcuno è rimasto frastornato dalle due puntate finali, che hanno messo a dura prova qualsiasi teoria della narratività finora elaborata in ambito accademico e non, raccomandiamo questo sito web dove troverete un’interessante analisi a cura di David Auerbach. Avvertenza: il testo è in inglese…)

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