Gli ultimi due titoli licenziati da Agenzia Alcatraz per la bella collana Bizarre che riprende catalogo e copertine (opere di Henri Lievens, l’equivalente del nostro grande Karel Thole per l’editoria d’Oltralpe) dalla classica Marabout Fantastique, la colonna portante della narrativa horror e weird francofona, uscita in Belgio (ma dal 1980 integrata nella francese Hachette) dal 1962 al 1983, e diretta fra il 1969 e il 1977 dal più importante critico belga del settore, Jean-Baptiste Baronian, sono due classici tanto ignoti da noi quanto imprescindibili per l’appassionato di lingua francese. Due testi molto lontani fra loro, nel tempo e nella forma, ma accomunati da un’analoga, sfrenata deriva visionaria, autenticamente stregonesca, che li ha resi entrambi giustamente famosi.
Il primo, L’orecchio della civetta, è una celeberrima raccolta di racconti di un duo di autori che scrivendo, indissolubilmente almeno per molti anni, in coppia, contese a Dumas e Balzac le scene letterarie parigine della metà dell’Ottocento. Si tratta di Émile Erckmann (1822-1899) e Alexandre Chatrian (1826-1890), entrambi nativi dell’Alsazia-Lorena, regione di confine contesa fra Francia e Germania e culturalmente bilingue. La coppia scelse il francese come idioma di espressione artistica, ma ambientò le sue storie immancabilmente nelle campagne e nei villaggi di questa regione, ispirandosi ai paesaggi aspri, al folklore e alle leggende del luogo, un immaginario tipicamente germanico che richiama strettamente scenari e suggestioni sulla falsariga dei Notturni di E.T.A. Hoffmann. I protagonisti hanno nomi teutonici, bevono birra e mangiano choucroutes, a parte la lingua siamo più vicini ad Heidelberg che a Parigi.
Raramente i racconti sfiorano l’horror autentico: il macabro, l’inquietudine o il terrore, sono quasi del tutto assenti e il tono è più spesso divertito e sornione, in equilibrio tra la fiaba (appena macchiata di nero), lo strano e il meraviglioso: se compaiono fantasmi non fanno troppa paura. Come viene precauzionalmente evidenziato in una nota introduttiva dell’editore che prende le distanze da simili esternazioni, sono evidenti in alcune delle novelle incluse sgradevoli stereotipi demonizzanti legati a pregiudizi etnici – tipici dell’epoca e del provincialismo culturale di quelle aree – rivolti contro zingari, neri ed ebrei. Un brutto vizio di molta narrativa del passato che, secondo le regole del politicamente corretto contemporaneo, andrebbe emendato ma che, se ben contestualizzato, non deve invece impressionarci troppo. Fa parte anche questo del sapore un po’ antiquato e passée che costituisce parte del fascino specifico di queste storie, piacevolmente remote dal gusto narrativo contemporaneo.
Completamente diverso il caso di Pietà per le ombre, antologia di racconti relativamente recente (1961) del maggiore scrittore francofono belga dopo Jean Ray, Thomas Owen (1910-2002), autore tutto da scoprire per noi italiani ma fra i più famosi e apprezzati del fantastique gallico. Owen si chiamava in realtà Gérald Bertot e divenne molto noto in parallelo come critico d’arte sotto lo pseudonimo di Stéphane Rey e come narratore fantastico sotto quello falsamente britannico ripreso dal nome del protagonista di un suo romanzo poliziesco giovanile. Le due attività letterarie, quella critica e quella narrativa, apparentemente scollegate, sono in realtà strettamente connesse: la visione e la figuratività surrealista (quel particolare surrealismo belga di cui si occupò soprattutto Stéphane Rey, che non si limita certo ai quadri di Magritte e Delvaux) pervade e sostiene potentemente tutta la narrativa di Thomas Owen.
La ritroviamo in molti dei racconti di questa raccolta come delle altre che Bizarre sta finalmente facendo conoscere in Italia – Cerimoniale notturno (2021), La cantina dei rospi (2022), e più ne seguiranno – nei quali il dettaglio visivo, la descrizione realistica ma inquietante, la deriva visionaria, regnano incontrastate. Una prospettiva perturbante, un’ottica anomala che sostanzia l’incubo macabro di Pietà per le ombre – racconto che da il titolo al libro – o di E la vita si fermò; che delinea il classico feminino perturbante di Metamorfosi, Le Malvagie della notte, Le ragazze modello, Luminosa nella notte, Donatienne e il suo destino; che tratteggia l’essenza numinosa degli oggetti feticcio di Il cofanetto o L’orologio. Che si diletti nell’umorismo nero, come in Fantasma, ci sei?, Notturno o Vendesi villa, o preferisca invece la svolta tragica e fatale, non è tanto la trama quanto l’atmosfera sottilmente evocata attraverso un così particolare punto di vista che rende i racconti di Thomas Owen unici nel panorama della narrativa fantastica internazionale. Il lettore è invitato a verificare di persona.