La strega è morta

"Scrissi qualcosa che non avrei dovuto. Lo feci, lo ammetto, più per una mia incapacità di adeguarmi alla menzogna generale, che per un desiderio di eroismo. Ero nell’età in cui la menzogna, in quanto strategia legittima, è sopportabile soltanto in letteratura, e non più nella vita". Parole di Duvravka Ugrešić (1949-2023) che lasciò la Croazia alla fine della Jugoslavia e che non tornò più perché “Il mio Paese non c'era più“.

Dal suo racconto del 1981 Štefica Cvek u raljama života (Štefica Cvek tra le fauci dalla vita) era stato tratto un film di successo nel 1984, mentre per Forsiranje romana-reke (Guadare il flusso narrativo) aveva vinto il prestigioso premio NIN per il miglior racconto jugoslavo nel 1988.

Duvravka Ugrešić, originaria di Kutina – un paese della Croazia centrale noto al massimo per la grande sua fabbrica di fertilizzanti – si era trasferita nella capitale a 18 anni per studiare russo e teoria letteraria. A Zagabria aveva trovato molto: un posto di lavoro all’università e un ruolo nell’élite intellettuale del Paese.

È stato il crollo della Jugoslavia nei primi anni ’90 a portarsi via il tutto. Nel momento in cui – secondo l’interpretazione della famosa band slovena di rock industriale dei Laibach – la federazione socialista aveva iniziato a dissolversi nel postmoderno, la Ugrešić, tra i massimi esperti di letteratura postmoderna, non aveva potuto tollerare che l’immondizia culturale che lei pure utilizzava nelle sue opere – per stigmatizzarla, lo šund per cui nell’epoca socialista chi lo produceva era tenuto a risarcire la collettività pagando un’apposita tassa, diventasse istituzione. Come ebbe lei stessa a dire:

Scrissi qualcosa che non avrei dovuto. Lo feci, lo ammetto, più per una mia incapacità di adeguarmi alla menzogna generale, che per un desiderio di eroismo. Ero nell’età in cui la menzogna, in quanto strategia legittima, è sopportabile soltanto in letteratura, e non più nella vita.

Nei banchetti improvvisati per le vie di Zagabria in cui, per festeggiare l’indipendenza appena proclamata, si vendevano lattine piene di pura aria croata, lei si sentiva soffocare, e lo spiegò per filo e per segno alla stampa internazionale, che le diede ampio seguito.

Poche settimane più tardi, si trovò coinvolta assieme ad altre quattro donne in quello che fu probabilmente il più vile attacco perpetrato dal giornalismo croato negli anni Novanta. Le cinque erano già da tempo oggetto di critiche per essersi rifiutate di assumere, tra le altre cose un atteggiamento esclusivamente antiserbo in relazione agli stupri di guerra che si stavano consumando in Bosnia. Nel contesto in cui il clima autoritario in Croazia stava attirando l’attenzione dei media internazionali e l’associazione di scrittori PEN international, riunita a Rio de Janeiro, prese posizione contro la proposta di organizzare la convention successiva a Dubrovnik – più che altro perché non deve esser sembrata una grande idea organizzare l’evento in un Paese in guerra – i vari spunti polemici contro l’intellighenzia antinazionalista si condensarono nel tristemente celebre articolo “Le femministe croate stuprano la Croazia”, rimasto nella memoria collettiva a partire dal sottotitolo, da cui il nome collettivo appioppato per sempre alle intellettuali messe alla berlina come “Streghe di Rio”.

L’indologa e figlia del partigiano e poi ambasciatore jugoslavo a Roma e Bonn, Rada Iveković, le giornaliste Jelena Lovrić e Vesna Kesić, la popolare scrittrice Slavenka Drakulić e naturalmente Dubravka Ugrešić si ritrovarono i nomi stampati assieme ad insinuazioni sulla loro famiglia, sul loro passato politico e sulla loro attitudine a frequentare uomini serbi.

Nel clima di linciaggio mediatico che spesso si accompagna alla guerra e ai grandi rivolgimenti politici, si trattò di dare il “la” a forme ulteriori di intimidazione e pressioni verso quegli intellettuali cosmopoliti che per formazione e abitudini di vita, ma anche semplicemente per onestà intellettuale, faticavano a piegare il proprio ruolo ad un servizio da rendere alla nazione. Dubravka resistette a Zagabria per meno di un anno. Come ebbe a dichiarare in seguito, “Furono in tutto due o tre, tra amici e conoscenti, a mostrarmi solidarietà”. La via dell’esilio fu, del resto, tutto sommato abbastanza comoda, dal momento che a Berlino le venne accordata una borsa di studio per scrittori.

Dopo Berlino a le vicende immortalate nel libro Il museo della resa incondizionata (il museo comunista sulla resa della Germania ormai in disfacimento dopo la resa della DDR nel cui bar si ritrovavano i profughi jugoslavi) è stato il turno degli Stati Uniti e di Have a Nice Day: From the Balkan War to the American Dream, una raccolta di scritti meglio nota come American fictionary.

Infine, finì ad Amsterdam dove prese casa e, al termine di un’esperienza di insegnamento all’università, rimase a vivere mantenendosi come scrittrice. Del resto, già a partire dalla fuga dalla Croazia nel 1993 i suoi libri avevano cominciato ad essere tradotti in varie lingue per piccole case editrici. Col tempo le edizioni straniere, per case editrici non più tanto piccole, superarono le 20 lingue, con una copertura pressoché completa in Europa e qualche sorpresa dove magari non te l’aspetti, in Corea del Sud, dove i temi dell’esilio e del Paese diviso devono aver trovato buona risonanza nei gusti del pubblico.

Non si dimenticò comunque dell’ormai ex Jugoslavia e degli staterelli in perenne transizione in cui si era nel frattempo divisa. Nel 1996, contemporaneamente in edizione croata e serba, uscì La cultura delle menzogne, una densa e corrosiva opera di dissezione delle sindromi culturali infantili dell’autoritarismo di (dopo) guerra – Milošević in Serbia, Tuđman in Croazia – pubblicata nella Biblioteca bastarda di Arkzin, il magazine pacifista oggetto di culto della (seconda) punkwave Zagabrese. È impossibile scorrere questa formidabile raccolta di frammenti, che purtroppo non è disponibile in italiano, e sceglierne uno. Meglio dunque procedere con ordine, e tradurre il primo (sono circa un centinaio):

1. Sono nata nel quinto decennio del 20° secolo, quattro anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sono nata in Jugoslavia, in una piccola cittadina industriale non lontano da Zagabria, capitale della repubblica di Croazia. In quegli anni nascevano molti bambini. Il Paese distrutto dalla guerra costruiva il proprio futuro a ritmo accelerato. Stando a quanto dice mia mamma al secondo anno di vita mi è stata diagnosticata una carenza di vitamine. Già al quinto però ho assaporato la mia prima arancia, di cui conservo un chiaro ricordo. Da quella prima arancia la vita ha confermato ogni giorno la marcia inarrestabile verso un futuro migliore.

La morte di Tuđman nel 1999, cui seguì un governo a guida socialdemocratica e la rapida remissione dei tratti più marcatamente autoritari, segnò anche la fine del clima di caccia alle streghe nel decennio presidente. Una delle “streghe”, la Drakulić, tornò a vivere in Istria. Non così Dubravka, e non perché nel suo caso la possibilità del ritorno venisse particolarmente osteggiata, ma per il semplice fatto, secondo le sue stesse parole, che “Il mio Paese non c’era più“.

Il tema sarebbe stato elaborato ulteriormente nel successivo romanzo Il ministero del dolore, dedicato assieme ai problemi dei giovani della diaspora Jugoslava all’estero a alla frantumazione della lingua e della letteratura jugoslave in patria, come nelle strutture accademiche straniere, e nel monumentale Catalogo della Jugomitologia di cui fu ispiratrice. Si tratta di una raccolta di fatti e ricordi sul Paese scomparso a metà strada tra Guiness dei primati e album fotografico.

L’importanza e il recupero della memoria sono stati temi centrali della sua scrittura, che trae spesso spunto da vecchi oggetti e fotografie, attestati tangibili di un passato da ricordare con onestà intellettuale sia come esercizio di resistenza culturale alla menzogna dilagante, sia come operazione di coerenza concettuale senza la quale nessuna soggettività può dirsi integra.

Oltre al passato, i suoi lavori traboccano di riferimenti alla vita quotidiana – evidente qui l’influenza della letteratura russa e sovietica – e le continue variazioni sul tema autobiografico – quell’elettrizzante conflitto di attribuzione tra narratore e narrato che, per fare un esempio, avvicina il menzionato film Štefica Cvek…  ai primi lavori di Almodovar.

Dubravka si è distinta anche per un’interessante produzione che si può definite grossomodo saggistica – nonostante il genere sia fortemente ibridato, in ossequio al postmodernismo. La Ugrešić saggista ricorda Susan Sontag – che l’ha definita non casualmente “Una scrittrice da seguire, una scrittrice da amare“. Interessante in questo campo uno dei lavori del periodo più recente, Cultura karaoke, sulle patologie della comunicazione di massa nell’era di Internet. Anche in questi scritti si incontrano dei temi ricorrenti, dalla regressione della letteratura e del ruolo dello scrittore a mera decorazione/decoratore all’onnipresenza della tecnologia, interrogandosi sull’impatto di questa e della sempre maggiore mobilità degli individui sui destini umani e collettivi. Quasi come se il vortice di disintegrazione postmoderna che ha fatto implodere la Jugoslavia stesse andando ad espandere il proprio raggio ai più vari ambiti di funzionamento della società globalizzata.

In conclusione per rendere idea dell’intensa intertestualità dei libri di Duvravka Ugrešić, un  florilegio – con una nota di commozione – dei prodotti e opere culturali collegati alla sua opera: