“Frammenti d’immagine affollano il cervello degli artisti” (“Soviele Flickerbilder in den Künstlerhirnen”) esclamava il giovane Durs Grünbein (Dresda 1962) in una poesia del marzo 1989, annunciando così una poetica eminentemente visiva e impressionistica, attenta ai processi percettivi e in cui l’Io lirico, ridotto a istanza anonima e avulso da ogni sovrastruttura ideologica (Grünbein appartiene all’ultima generazione cresciuta e socializzatasi nella DDR), si appropria di una realtà esteriore eterogenea, polifonica e disancorata da ogni gerarchia di senso. Un Io atomizzato, post-ideologico e post-istorico, dunque, per il quale lo scenario ideale è la grande città, che del resto, sin dai tempi di Baudelaire, autore ammiratissimo da Grünbein, è la patria elettiva del poeta nomade e flâneur. L’attenzione allo spazio urbano, alla brechtiana “giungla delle città”, che già predominava nel primo volume di poesie del nostro poeta, Grauzone morgens (1988), una inesausta riflessione sulla corporeità dell’uomo e la sua caducità, la sensibilità da naturalista verso piante ed animali e – dal punto di vista della tecnica letteraria – una predilezione per il procedimento associativo, che procede per analogie ed evocazioni, nonché l’esibito gusto per la citazione colta e la predominanza di una tonalità disincantata e ironica si riconfermano come tratti distintivi anche della più recente lirica di Grünbein, di cui il volume appena uscito da Einaudi, Schiuma di quanti, offre un’ampia silloge.
“Ogni istante insondabile, il mondo un’eco colossale nel labirinto dei sensi” dichiara programmaticamente il poeta nella poesia introduttiva alla raccolta Koloss im Nebel (2012), “Interieur mit Eule I”, che la curatrice e traduttrice del volume einaudiano, Anna Maria Carpi, ha prescelto come poesia d’esordio: un’invocazione semiseria alla civetta, animale sacro a Minerva e caro ai filosofi che la traduttrice rende erroneamente con il nome di un altro volatile, ovvero il “gufo” (“Interno con gufo I”).
Il volume, che comprende poesie tratte dagli ultimi tre volumi di liriche di Grünbein oltre che da un cospicuo numero di componimenti inediti, si compone di testi assai eterogenei: il lettore s’imbatte infatti in impressioni di viaggio, in raffinate e originali descrizioni di piante e pesci (“Stecche tibetane”, “Agave”, “L’ispettore coboldo”, “Carciofi”), svolte con la precisione del naturalista e la sensibilità del poeta, in riflessioni e divagazioni sul tema del vuoto e della caducità (molto bella a tal riguardo è la poesia “Trasparenza in azzurro”), in ritratti di brevi epifanie e di momenti di quiete sospesa (“Teiera con cachi”), in istantanee della quotidianità romana, che il poeta vede sospesa tra fasti classici e barocchi e una modernità chiassosa e volgare, in virtuosistiche variazioni sui pini di Roma (una sezione del volume comprende poesie tratte dalla raccolta Aroma. Un album romano) e in componimenti ispirati a Berlino e alla tragica storia del Novecento che in essa ancora si respira. La città appare nelle poesie di ambientazione urbana come un luogo liminare in cui convivono i vivi e i morti e in cui si compenetrano vegetazione e civiltà, ove “il dente di leone combatte con la pioggia e la polvere, // il trifoglio ingoia i gas sul bordo della strada” (pag. 11). Una insopprimibile risorgenza del passato è ben percepibile nel folto novero di poesie berlinesi. Tra di esse spicca “Nel Kolonnadenhof”, in cui l’Io lirico ammira la statua di un’arciera nel Kolonnadenhof, un giardino contornato da colonne neoclassiche prospiciente l’Altes Museum nell’Isola dei musei di Berlino, e in cui contrappone, con un gusto à la Gottfried Benn, l’algida e imperturbabile bellezza della statua alle tragedie della storia che lì ebbero luogo, ovvero i cannoneggiamenti sovietici. Significativo, a tal proposito, è il riferimento nel verso finale alla “Anonyma”, ovvero alla redattrice anonima di un celebre diario, Eine Frau in Berlin, edito nel 1959 e ristampato nel 2003 (edizione italiana Einaudi 2004) in cui la innominata narratrice riferisce delle violenze commesse dai soldati sovietici nei confronti delle donne berlinesi: con il sintagma “jene leere Seite im Tagebuch der Anonyma” Grünbein allude appunto a quei terribili stupri. Il riferimento non viene colto dalla traduttrice che con spregio della morfologia (“Anonyma” è un sostantivo singolare, non plurale) parla della “pagina vuota nel diario degli anonimi” (corsivo mio) rendendo il verso del tutto privo di senso. Arriviamo dunque al serio punctum dolens di questo volume che è rappresentato da una traduzione del tutto inadeguata, fitta di sviste, omissioni, goffaggini ed errori marchiani. Non appaia eccessivo dire che la traduttrice ha preso fischi per fiaschi: a pag. 5 confonde “Münze” (moneta) con “Mütze” (berretto), a pag. 52 “Test” (test, verifica) con “Text” (testo), a pag. 55 “Eis” (gelo) con “Eisen” (ferro), a pag. 167 “hohl” (vuoto, cavo) con “hoch” (alto); nella stessa poesia (pag. 167, “Poesia metafisica”) il sostantivo “Cortex”, che è la corteccia cerebrale, è inspiegabilmente lasciato in originale e così, “un nome assopito nella corteccia cerebrale” diventa un “nome annebbiato dal Cortex” (?); l’espressione “Waschbrettbauch” (una pancia “piatta come un’asse del bucato”), che compare in un altro componimento a proposito di un cartellone pubblicitario (pag. 51), viene per così dire troncata dalla traduttrice che così rende: “Lui mostra l’asse del bucato” (corsivo mio). Numerosi altri esempi si potrebbero addurre, né si può dire che la versione italiana di queste poesie abbia acquisito, a compenso della mancata chiarezza e fedeltà, di musicalità e scioltezza, poiché mai si assiste al tentativo da parte della traduttrice di rendere metri, ritmi, assonanze e musicalità dell’originale. Sparute, casuali e inadeguate anche le note apposte a piè di pagina, che ora sono sbagliate (il Tiergarten non è lo zoo di Berlino, come asserisce convinta la traduttrice a pagina 144, ma è un ampio parco della città, un tempo riserva di caccia dell’Imperatore), ora sono, oltre che errate, anche oscure, perché scritte in un italiano zoppicante; si veda a pag. 141 la nota posta riguardo agli Stolpersteine, le “pietre d’inciampo” – ma tradotte da Carpi come le “pietre dello scandalo” – ormai presenti anche sui marciapiedi milanesi: “Si tratta di un progetto dell’artista Gunter Demnig (1992) per ricordare, fra le case di città, a distanze ravvicinate le vittime del nazismo, in particolare gli ebrei” (sic, corsivo mio).
Curioso, tra l’altro constatare che una poesia antologizzata nel presente volume, “Mimose”, era già stata presentata al lettore italiano dalla stessa Carpi nella precedente antologia grünbeiniana, Strofe per dopodomani (Einaudi 2011), in una traduzione peraltro diversa, decisamente migliore, e in cui il primo verso suonava, correttamente: “A volte a tarda notte fa ritorno quel giorno a Roma” (Strofe per dopodomani, pag. 189; il poeta allude al “ritorno” in sogno di una giornata romana, i cui eventi riaffiorano come immagini oniriche). Ora, non si capisce perché nella traduzione contenuta in Schiume di quanti, il verso (che nella versione originale è sempre lo stesso) si trasforma così: “La notte a volte lui ritorna tardi, quest’unico giorno a Roma”; traduzione errata, e che con quel “lui ritorna tardi” fa pensare non tanto al riaffiorare in sogno di una memorabile giornata romana, quanto al rientro tardivo a casa di un ospite un po’ nottambulo…
Per il resto, va constatato come Grünbein, abile versificatore e giocoliere della parola, fatichi a contenere un estro poetico debordante: diverse poesie avrebbero richiesto un più preciso lavoro di lima, una riflessione ulteriore, magari una coraggiosa operazione di scarto. Sussistono, dunque, metafore forzate e un po’ kitsch (le foglie dei carciofi romani che “si attaccano al palato / come una banda di mafiosi / al suo sanguinario clan”, pag. 75), aggettivazioni imprecise (pag. 146: i colori “polemici”?), un ipercitazionismo iconografico un po’ stucchevole (l’incrocio delle foglie dell’agave richiama al poeta il giuramento degli Orazi e Curiazi di David; i migranti che sonnecchiano sotto gli alberi evocano i contadini del Paese di cuccagna di Breughel…) e qualche banalità (il nome di Catullo viene tirato fuori in una poesia romana e definito “il primo poeta della modernità”). Alcuni quadretti di scene romane, inoltre, offrono cliché un po’ triti (pag. 46, “Mattina un incidente”) e altre poesie sono francamente incomprensibili (ad esempio: “Teoria dei segni”, “La voliera della pittura”, “Il tricheco”).
Due delle poesie inedite presentate nell’antologia einaudiana, ovvero “Il film espressionista” e “Il mercato delle pulci”, sono peraltro riprodotte (nella traduzione, assai migliore ma non impeccabile, di Rosalba Maletta) anche nel secondo libro grünbeiniano di cui qui vogliamo parlare, ovvero Il bosco bianco, un volumetto celebrativo, stampato su elegante carta patinata e arricchito di illustrazioni, che ruota attorno al discorso tenuto da Grünbein a Milano nell’ottobre 2019 in occasione del conferimento della Pergamena della città di Milano, consegnata al poeta nel trentennale della caduta del muro di Berlino in virtù del suo cosmopolitismo e della sua capacità “di abbattere le frontiere tra le discipline, le nazioni e gli individui”. Il libretto riproduce dunque innanzitutto il discorso di ringraziamento tenuto da Grünbein – otto paginette stampate a caratteri larghi, sussunte sotto l’enfatica definizione di “Discorso di Milano” – in cui il poeta spazia a briglia sciolta tra l’edificio eclettico della stazione di Milano, i film di ambientazione milanese di Antonioni, Teorema di Pasolini, Greta Thunberg e la fondazione dei Fasci a piazza San Sepolcro nel 1919; segue una selezione di poesie inedite, assai eterogenee, che dovrebbero testimoniare da diverse prospettive l’impegno civile dello scrittore e chiude infine il volumetto un’ampia postfazione della curatrice, un testo tanto verboso, pomposamente agiografico e pretenzioso – pullulante di frenetiche citazioni, tratte da tutto lo scibile umano – quanto poco perspicuo e digeribile (un breve saggio che dà un’idea del tono generale di queste trenta e rotte pagine: “L’Europa del terzo millennio trova in Grünbein uno dei suoi cantori più lucidi e ispirati; un poeta cosmopolita capace di traghettare la tradizione occidentale nel XXI secolo tra nuove pestilenze, “era onlife” (Floridi), neo-costruttivismi e resistenza dello psichico”, pag. 66).
Il bel titolo del volume riprende una poesia ivi contenuta dedicata al Duomo di Milano, “il bosco bianco”, appunto. Dalle terrazze del Duomo il poeta ammira la selva di guglie e contrafforti, mentre lo sguardo e l’immaginazione spaziano lontani: “La pietra fioriva, cirri si sprigionavano, / contrafforti fin dove giungeva l’occhio. // Intorno a noi, accessibile sino al cielo, / si chiudeva un bosco bianco. / Da qui mare e monti giacevano / schierati in una foschia confortante”. Anche in questo componimento Grünbein si riconferma un attento poeta della visione, un sensibile cantore dell’attimo, che egli trasfigura in suggestiva immagine simbolica.