Dürrenmatt e il Minotauro

Friedrich Dürrenmatt, Minotauro. Una ballata, ill. dell’autore, tr. Donata Berra, Adelphi, pp. 78, euro 10,00 stampa, euro 6,99 epub

Talvolta bisognerebbe non arrendersi alla ricerca facile, soprattutto quando la letteratura riesce a toccare la parte più intima della coscienza, l’antichità del sapere umano che non è mai disgiunto dall’ansia di distruggere quel che di sconosciuto appare. Percezione e spavento fanno compagnia anche al linguaggio, e uno scrittore come Dürrenmatt diventa esemplare ai giorni nostri anche per questo: le sue prefigurazioni del Male, della gravità della sostanza umana posta di fronte alle leggi del caso e soprattutto alle sue – talora insignificanti – leggi, diventano veggenza pura, e soprattutto cronaca potenziata, esatta, chirurgica. Come se l’autore riuscisse a detergere tutto il sangue presente sulla scena (e nel caso del Minotauro questo è ancora più vero) allo scopo di renderla certa e palpabile per chi si appresta a porvisi di fronte. Il chirurgo ha bisogno che un assistente gli sgomberi il campo dai liquidi e dalle frattaglie che gli strumenti producono sui corpi, altrimenti si accecherebbero tutte le sue facoltà.

Il linguaggio di Dürrenmatt diventa addirittura apologetico in questo racconto, perché qui l’identità della bestia, del mostro, emerge all’interno della pagina in tutta la sua tridimensionalità, esattamente come l’autore descrive i suoi balzi ansiosi per allontanarsi e avvicinarsi alle centinaia di doppi di cui non sa niente, su cui s’interroga senza posa. Egli è lì, già cresciuto in una sorta di limbo, perché gli Dei si sa sono peggio degli uomini e le loro creature sono cloni genetici destinati alla catastrofe, al macello. Quando si sveglia l’attende lo spavento, il terrore, non sapendo nulla della sua natura e di ciò che lo circonda. Combatte e prova dolore, ama e provoca lo sfacelo, saluta e danza come se questo bastasse a salvare quel mondo isoscele, ricolmo di umori e sudori, paraventi e presenze furiose e ignote – come se bastasse a salvare sé stesso. Il tatto, che la Creatura sperimenta appena si avvede di non avere altre vie d’uscita (e il labirinto è il luogo perfetto della perdita delle coordinate), il tatto potrebbe essere il primo livello di conoscenza.

Tutto è ignoto al Minotauro, anche la sua natura. La percezione è nata da poco in lui, potrebbe in un impeto di fiducia e amore consentirgli di capire, dunque di assolversi dai suoi creatori, forse pur anche di liberarsi. Anche se questa parola (libertà) gli è di certo ignota. Dürrenmatt descrive le regole del mito come inevitabilmente sono giunte a essere regole degli uomini trasformate in leggi: tanto più determinate di quelle dei precursori, dopo che il mondo è divenuto privilegio unico della razza umana, sempre più grottesca una volta lasciata libera. Il Minotauro non può che essere sconfitto nel momento in cui si trova a lottare contro il potere che l’ha confinato, e che questa volta ha deciso di sopprimerlo. Non prima di avergli fatto conoscere la nuda bellezza dai capelli lunghi e neri: una fanciulla, nuda e bellissima, immobile in mezzo a quelle creature come lui accovacciate e che sono dappertutto. L’esca è una forma largamente usata dal cacciatore, anche quando non c’è più bisogno di sfamarsi attraverso la lotta per la sopravvivenza. L’esca è anche suo divertimento, se usata con le trappole, e il labirinto assume la forma di una macchina micidiale.

La Creatura non uccide, ama. Lo fa per sua natura, senza sapere che può recar danno, permettendo poi a una furia sconosciuta, che piomba dall’alto, di produrre scempio del corpo femminile, in una baruffa di penne, colli, becchi che dilaniano, strappano, divorano. La “ballata” di Dürrenmatt (qui riprodotta in una geniale traduzione di Donata Berra) è una danza totale, tutti vi partecipano, nel tentativo di difendersi, amare, lottare, ingannare e alla fine sottomettere quel che vi è ancora di innocente. Giasone inganna il Minotauro, sotto una finta testa d’uro nasconde il pugnale che farà accasciare la bestia. La guerra contro il tentativo di fratellanza, diventa perfino gioco nella mente di questi uomini chiamati eroi. Lo scrittore svizzero ne smaschera l’essenza con una scrittura perfetta, precisa quanto insolente verso il potere che rende lampante nelle sue trame politiche. Per questo lo smembramento dei corpi della fanciulla e del Minotauro avviene allo stesso modo: con effetto raccapricciante l’orda di uccelli piomba giù sui resti della bella e sullo scuro cadavere della Creatura colpita fra le spalle, sbranandoli in un turbinio che soltanto una scena bellica può ricordare, con tutto il dolore che si stende sotto il cielo oscurato.