Prima di affrontare i libri in questione dobbiamo spendere qualche parola per dare conto della casa editrice che li pubblica. Nella pagina on line dell’editore Giometti & Antonello, che invitiamo caldamente a visitare, campeggia a fianco del catalogo, un programma che è giusto riportare testualmente: “In un’epoca in cui la produzione e il consumo di testi conosce un ampliamento senza precedenti, ma al contempo l’autorevolezza di autori e opere vacilla in modo quasi irreversibile e la critica tradizionale e le accademie hanno totalmente smarrito la loro funzione di filtro e di indirizzo, il ruolo dell’editore diviene quanto mai centrale. Per questo motivo azzardiamo la creazione di un nuovo marchio editoriale in cui confluiscono due traiettorie diverse: quella di Gino Giometti, filosofo, co-fondatore e co-direttore per vent’anni della casa editrice Quodlibet, e quella di Danni Antonello, poeta, comparatista, e creatore in pochi anni della libreria antiquaria Scaramouche di Macerata”. Il testo prosegue oltre per concludersi con una frase da sottoscrivere integralmente: ”L’editore deve trovare il coraggio di riproporsi come guida”.
Il coraggio di assumersi questo impegnativo ruolo il piccolo editore maceratese lo ha trovato pienamente, non solo nella rigorosa cura tipografica o nella raffinata e sobria estetica dei suoi volumi, ma soprattutto nella varietà, originalità e ricercatezza del suo catalogo che spazia dalle poesie di Osip Mandel’štam a quelle di Arsenij Tarkovskij; dalle pagine del Finnegans Wake di James Joyce tradotto da J. Rodolfo Wilcock, all’introvabile raccolta di Massimo Ferretti Allergia; dal carteggio sull’LSD di Ernst Jünger e Albert Hofmann, al diario di Jacques Prevel, In compagnia di Antonin Artaud, resoconto degli ultimi due anni del poeta, visto dal discepolo, amico e soprattutto personale fornitore di laudano e oppio; dagli scritti di Milena Jesenská, Qui non può trovarmi nessuno, figura letteraria degnamente autonoma che invece normalmente viene ricordata solo attraverso Kafka, al Kriegspiel di Alice Becker-Ho e Guy Debord, fondatore dell’Internazionale Situazionista, Il gioco della guerra.
Chi scrive queste righe scoprì casualmente l’esistenza dell’editore Giometti & Antonello un paio di anni fa, grazie alla loro bella edizione di Gilles, romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, difficilmente reperibile e, fino ad allora, esclusivamente nell’ambito dell’editoria della destra radicale che da sempre tributa allo scrittore normanno il culto di un’immaginetta votiva. Ex volontario sul Fronte Occidentale (ne testimonierà nei racconti de La commedia di Charleroi, Fazi, 2014), fiancheggiatore non sempre convinto di Dada prima e del Surrealismo poi, Drieu si sposterà in seguito su posizioni decisamente fasciste. Probabilmente è con Céline, il più illustre, intelligente e letterariamente valido fra i collaborazionisti, ma, a differenza di Céline, che resta un cane sciolto, viene seriamente compromesso con incarichi ufficiali presso gli occupanti tedeschi – finirà suicida dopo la Liberazione e prima che i partigiani possano mettere le mani su di lui (“Siate coerenti con l’orgoglio della Resistenza come io lo sono stato con quello della Collaborazione; non barate come non baro io: condannatemi alla pena capitale. Abbiamo giocato ed io ho perduto: esigo la morte”; scrive in una delle sue ultime lettere rivolgendosi ai liberatori, fra i quali il fraterno amico Malraux che avrebbe certamente cercato di salvarlo…).
Il suicidio è la sua ossessione (“Mi sarebbe piaciuto fare parte di questa confraternita di suicidi: a conti fatti, è una nobile confraternita.”- dal Diario 1944-1945 in Racconto segreto, SE, 2005) e proprio descrivendo il suicidio dell’amico Dada Jacques Rigaut, aveva scritto nel 1931 le sue pagine più belle: il suo capolavoro assoluto, Fuoco fatuo (SE, 2017), trasposto da Luis Malle nel 1963 in un omonimo, splendido film interpretato da Maurice Ronet e Jeanne Moreau. Gilles, invece, romanzo monumentale largamente autobiografico, scritto nel 1939, non raggiunge minimamente le vette del breve e chirurgico Le Feu follet. Troppa carne al fuoco e una certa dose di retorica inceppano lo stile cristallino dell’autore (forse è la causa sbagliata a cui si consacra a immiserire un uomo e un artista molto più grande delle sue idee…).
Gilles è Drieu, Gilles è il Pierrot del quadro di Wattau esposto al Louvre: dalle trincee al matrimonio d’interesse, la debouche del dandy che passa da una donna all’altra senza riuscire mai a possederne “davvero” nessuna (L’uomo pieno di donne, Passigli, 2000 – è un altro dei romanzi di Drieu, uomo bello e affascinante eppure profondamente solo, anche qui il protagonista si chiama ancora Gilles), la sua carriera nel mondo della politica e il suo crescente disgusto per la democrazia parlamentare corrotta, la velenosa rappresentazione caricaturale degli ex amici surrealisti (in particolare André Breton e il rivale in amore Louis Aragon, ingiustamente infamati nelle pagine più spietate del romanzo), infine l’adesione incondizionata al fascismo come una missione mistica e il palingenetico ritorno all’azione diretta, sul fronte franchista nella Guerra Civile spagnola. Non mancano pagine notevoli, ma nell’insieme il romanzo risulta disarmonico, talvolta ampolloso e, quel che è peggio, forzatamente “a chiave”. Stupisce che Drieu avesse polemizzato, poco tempo prima e ancora in termini garbati, con i suoi temporanei compagni di strada surrealisti, rinfacciando loro, curiosamente, proprio il percorso che sarà esaltato in Gilles: il passaggio al comunismo di Breton e compagni è un tradimento della poesia in nome dell’azione diretta, mentre un poeta ha invece il dovere di restare sempre poeta. Sarà però proprio quello che farà anche Gilles/Drieu: abbandonare il mondo inautentico dell’astrazione per quello sanguinoso dell’azione, per giunta per una causa sbagliata. Il romanzo, con tutte le sue forzature stilistiche e ideologiche, resta un testo comunque significativo ed emblematico e bene ha fatto l’Editore a riportarlo alla luce sottraendolo finalmente al microcosmo mefitico in cui gravita la memoria del suo autore.
Valore e oscurità condivisa con L’altra voce: Lettere 1955-1972 di Alejandra Pizarnik, volume pubblicato pochi mesi fa. Poetessa argentina di origine ebrea russa, la Pizarnik è poco conosciuta fuori dall’America latina. Abbiamo già parlato di lei nel nostro speciale sui vampiri a proposito del suo testo in prosa La contessa sanguinaria, rilettura della biografia romanzesca dell’autocrate omicida ungherese Erzsébet Bàthory, scritta dall’autrice surrealista Valentine Penrose. Oltre a questo libretto, ormai introvabile, il lettore italiano può reperire Poesia completa (2018), a cura di Ana Becciu e traduzione di Roberta Buffi, edizione LietoColle e La figlia dell’insonnia (2015), a cura di Claudio Cinti, edizione Crocetti. La breve vita della Pizarnik, spesa in parte a Parigi dove si era laureata in Storia delle religioni alla Sorbona e terminata a Buenos Aires con una overdose di barbiturici in una notte di settembre del 1972, è stata intessuta fin dalla prima gioventù di relazioni personali ed epistolari con i più fini intelletti della sua epoca, citando solo i nomi più conosciuti anche da noi in Europa: Julio Cortàzar (che fu forse il suo amico più caro e che alla sua morte le dedicò il poema Aquí Alejandra), Octavio Paz, Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares, Jean Starobinski, Antonio Fernàndez Molina, Manuel Mujica Lainez, l’italiana Cristina Campo.
Di questa corrispondenza L’altra voce offre una vivida e dettagliata testimonianza che rivela la personalità complessa e tormentata di una delle figure più affascinanti e misconosciute della letteratura latinoamericana. Anche in questo caso Giometti & Antonello si conferma autentico faro d’orientamento lungo un orizzonte letterario fuori dagli schemi scontati, ovvi e conformisti del gusto maggioritario. La cultura ormai la fanno solo i piccoli editori coraggiosi: seguiamoli con tutta la costanza e l’affetto che meritano.
Da Alejandra Pizarnik a Julio Cortàzar
Julio, questo texticolo “gli” sembra uno scherzo
Soltanto tu sai che il più piccolo scherzo
Prende forma nei momenti in cui
La vita est à la hauteur de la mort.
La tanto tua Alejandra
P.S.: Ho esagerato, suppongo. E ho perso, il mio vecchio amico della tua vecchia Alejandra che ha paura di tutto salvo (ora, oh Julio) della pazzia e della morte. (Sono due mesi che sto in ospedale. Eccessi e poi tentativo di suicidio… fallito, hélas).
La pazzia, la
Morte. Nadjia non scrive.
Don Chisciotte, neanche.
Julio, odio Artaud (bugia)
Perché vorrei non sentire
Così sospettosamente bene
Le sue possibilità dell’impossibilità.
Julio, sono andata così in basso. Ma non c’è fondo.
Julio, credo che non sopporto più “le cagne parole”.
P.S.: In ospedale imparo a convivere con gli ultimi rifiuti. La mia migliore amica è una cameriera di 18 anni che ha ucciso suo figlio. Ho cominciato a leggere i giornali. Ti approvo molto politicamente. La tua poesia su “Panorama” è grande perché mi ha fatto bene (l’ho letta in ospedale).