Nel 1978 esce il secondo numero della rivista Calibano edita da Savelli, uno dei più importanti editori di Movimento del periodo. La rivista occupa un posto importante nella critica militante italiana, sia per il suo impegno culturale all’interno delle grandi trasformazioni politiche che attraversavano in quegli anni il nostro Paese, sia per l’ampiezza del campo di analisi che andava dalla letteratura vittoriana, al postmoderno (cosa non da poco, visto il periodo di pubblicazione) fino al poliziesco, all’horror e alla fantascienza. Questo gruppo di studiosi eterodossi diffonde l’idea che la letteratura di massa faccia parte della letteratura esattamente come la letteratura “colta”, e che tra queste due componenti intercorrano profondi e fondamentali legami. La redazione contava, tra gli altri, Franco Moretti, Beniamino Placido e Alessandro Portelli, studiosi che in seguito avranno giocato un ruolo importante nel panorama culturale italiano e mondiale.
In una geniale introduzione intitolata “Il grande sonno”, la redazione scrive che la letteratura di massa altro non è che “il Mr. Hyde della letteratura colta e dei suoi ideologi, i quali la allontanano da sé credendo in tal modo di preservare la propria illusoria purezza”. Ma, continuano, “Hyde e Jeckill sono i due volti della stessa persona”, diversi ma complementari. Il progressivo perdere di consistenza dei confini che separano generi e letteratura colta, con l’interscambiabilità odierna che oggi praticano apertamente, e talvolta ingenuamente, gli stessi scrittori mainstream, quando a ingenuamente, gmondialeome la letteratura “approdano, frequentemente e inevitabilmente, al poliziesco e al fantastico, conferma il valore dell’intuizione dei calibani e l’acutezza della loro visione.
Il citato saggio introduttivo e i contributi che seguono, dedicati a Edgar Allan Poe, Isaac Asimov, Frankenstein, Dracula, all’hard boiled e alla figura del gangster, meriterebbero oggi un’attenta ripresa perché quel rapporto tra società e letteratura su cui la rivista ruotava è ben lungi dall’essere inutile e superato. Anzi, oltre quarant’anni dopo, mentre il capitalismo invade e cerca di conquistare ogni elemento dell’esistenza umana, specializzandosi nello sfruttamento del sapere e delle conoscenze (operaizzando e precarizzando le attività intellettuali e creative), è evidente che l’immaginario resta uno spazio di scontro politico senza esclusione di colpi.
Voglio ricordare, in questa lunga marcia contro lo stato di cose presenti in cui molti si sono alternati con passione e ostinazione, un’altra rivista dalla vita ancora più breve di Calibano (che raggiunse sette numeri): Alphaville, curata da Daniele Brolli e Antonio Caronia, che ha ripreso nei suoi due numeri unici molti di quei temi e di quelle sfide, affrontando il rapporto tra generi (letterari, cinematografici, dei fumetti) e cultura nel periodo del primo emergere dei media della comunicazione digitale e della loro diffusione di massa, affiancando così le tecnologie agli elaborati dell’immaginario, manifestando nuove forme di quella sua proverbiale funzionalità allo sviluppo sociale. E forse si potrebbe affermare che anche la rivista Un’Ambigua Utopia, ancora tra anni Settanta e Ottanta, abbia lavorato sul ruolo politico dell’immaginario prodotto dalla fantascienza in risposta alle radicali trasformazioni del mondo reale.
Oggi Pulp Libri, calata a forza nella dimensione digitale, riprende una piccola parte di quel progetto, provando a usare la grammatica del web per stendere un itinerario, una mappa virtuale e mobile, su un elemento fondamentale dell’immaginario come il vampiro. Dobbiamo a Franco Moretti e al suo saggio “Dialettica della paura” (Calibano 1978, n.2.) la spiegazione del successo di due figure come Frankenstein e Dracula, e della loro capacità, dialettica appunto, di trasformarsi e ripresentarsi nelle epoche successive al loro primo apparire trasformando se stessi e, al contempo, mantenendo i caratteri contraddistintivi della loro peculiarità originale. Il passaggio dalla modernità alla postmodernità ha comportato l’allentamento del significato letterale, prediligendo la sfida di confronti e rapporti impuri. In questo senso una rilettura del testo di Franco Moretti può essere utile come nodo concettuale per la figura del vampiro in un periodo in cui, in Italia, lo scontro tra capitale e avanguardie aveva raggiunto il culmine. Si trattava, in realtà, di un cambiamento di fase nello sviluppo capitalista, che si accingeva ad aumentare le sue logiche di alienazione e sfruttamento invece di smorzarle; ma quello scontro, forse, era già stato perduto non tanto nei rapporti di forza quanto nell’incomprensione di cosa fosse concretamente il nemico e quale fosse la sua reale strategia.
“Dialettica della paura”, in realtà è un saggio dedicato alla strana coppia Frankenstein e a Dracula, e al rapporto che intercorre tra loro. È quindi una forzatura intellettuale redigere una versione postuma dedicata solamente allo specifico del vampiro, ma può essere utile nella sua speciale capacità di legare le creazioni dell’immaginario alle logiche produttive di una particolare società. Ne segue quindi un percorso euristico che spero possa fondersi agli altri testi di questo itinerario vampiresco e contribuire a gettare luce (o forse a rabbuiare ancora di più) sulla figura di Dracula il vampiro. In molti, anni dopo, abbiamo commentato che lo sfruttamento capitalista si era esteso dal corpo alle menti, dall’orario di lavoro alla vita intera, operaizzando le costruzioni intellettuali, dilagando dagli spazi delle fabbriche fino a cercare il dominio dell’immaginario per renderlo esso stesso produttivo e sfruttarlo.
Moretti esordisce dichiarando che “la paura della civiltà borghese si riassume in due nomi: Frankenstein e Dracula”. Quando Frankenstein nasce dalla penna di Mary Shelley, nel 1816, anche il vampiro trova vita nel breve e poco noto testo di John Polidori, ma è il Dracula di Bram Stoker che, nel 1897, egemonizza, sintetizza e trasforma i molti vampiri esistenti nella tradizione letteraria e in quella popolare. Sono i due punti estremi della nuova società che si sta dispiegando: “il miserabile sfigurato e il possidente crudele”. Se il mostro dello scienziato Frankenstein non può che nascere nel momento storico in cui Galvani e il nipote Aldini mostrano al mondo occidentale che alla base dei normali fenomeni vitali risiede l’elettricità, incarnandosi all’interno di quel complesso paradigma scientifico che coinvolge appunto Galvani con Alessandro Volta e poi con Michael Faraday, Dracula incarna la divisione sempre esistita tra le classi e il rapporto di parassitismo che il ricco e il “possidente crudele” esercitano sull’indigente e sul lavoratore. Secondo Moretti la letteratura del terrore è la letteratura del “terrore della scissione sociale”, e opera, attraverso i propri meccanismi narrativi, per sanarla. Questo perché lo scontro con il vampiro, nella realtà, è diventato una necessità “storica” a causa dell’evolversi dei rapporti di forza tra le classi. Il progresso delle scienze, infatti, offre alle vittime e ai nemici del vampiro una serie di saperi e di strumenti capaci di opporsi al suo atavico potere. È quindi arrivata un’epoca in cui questo scontro è possibile e l’esito sembra non essere scontato. Marxianamente, questa letteratura dovrebbe razionalmente concludersi con la sconfitta del vampiro (e del suo retaggio di superstizioni e inganni che gli hanno consentito di mantenere troppo a lungo un ingiustificato e madornale potere), con la sua dissoluzione di fronte alle forze di un progresso, non solo tecnico ma, soprattutto, capace di leggere la realtà dei rapporti sociali e denunciarne l’assoluta irrazionalità. Come ben sappiamo non esiste alcun motivo razionale per cui debbano esistere un re, un proprietario o un benestante, esiste solamente una collaudata capacità di dominio trasmissibile attraverso le eredità in funzione della consanguineità.
Nella propria analisi, ricordiamo della fine degli anni Settanta, Moretti individua forse un’ambiguità della letteratura fantastica, soprattutto se confrontata con modelli brechtiani (votati a mostrare direttamente la realtà dei rapporti sociali), ovvero che la sconfitta del vampiro è solo temporanea. Questo lieto fine non definitivo offre ai lettori soltanto “l’illusione di poter fermare la storia”, perché sappiamo che, in qualche modo, il vampiro tornerà, e lo scontro con lui sarà sempre più aspro e violento. Queste ambiguità sono estremamente significative perché ogni classe proietta verso l’immaginario le proprie speranze e le proprie paure, e cambiando modello produttivo e progetti di dominio si modificano le caratteristiche delle creature fantastiche e la loro dinamica reciproca. Questo richiama l’ambiguità politica intrinseca alle costruzioni dell’immaginario, storicamente recalcitranti a sostenere un’unica prospettiva. Oggi osserviamo che la mancanza di un lieto fine definitivo è proprio una caratteristica della narrativa popolare che vede i propri conflitti svilupparsi all’infinito. Non è solo una necessità narrativa, un’economia della costruzione della trama atta a fidelizzare il lettore, ma anche la consapevolezza che le creature dell’immaginario si evolvono restando al passo dell’evolversi della società e delle lotte che avvengono al suo interno. Nel Dracula di Stoker, che è una ristrutturazione dei vampiri precedenti, leggiamo molto chiaramente la metafora di quello specifico scontro di classe. Ancora Moretti osserva che “il nemico del mostro, sarà sempre (…) un rappresentante del presente, un concentrato di compiaciuta mediocrità ottocentesca: nazionalista, sciocco, superstizioso, filisteo, impotente, soddisfatto di sé”. Come nel romanzo poliziesco la trama si sviluppa allo scopo di scagionare gli innocenti, nella narrativa dell’orrore l’obiettivo è arginare ed espellere il mostro dalla società. Nella fantascienza è di frequente lo scienziato a interpretare il ruolo, spesso uggioso, di elemento capace di sconfiggere l’alieno o le creature modificate dai disastri ambientali, ma nella narrativa dell’orrore, quasi sempre, sono conoscenze arcane e iniziatiche che consento di muovere guerra alle creature dell’immaginario. Se lo scontro avviene nella società ottocentesca, come nel caso di Dracula, è la borghesia produttiva a opporsi alla ricchezza nobiliare ed ereditaria.
Il vampiro di Polidori è solo “un signorotto feudale che è costretto a girare l’Europa sgozzando fanciulle al misero scopo di sopravvivere”, una figura inevitabilmente votata all’estinzione, mentre Dracula si rivela “un imprenditore razionale che investe il suo oro per espandere la sua signoria” e la sua meta è la City di Londra, il centro pulsante del capitalismo e dell’imperialismo mondiale.
“Il Conte Dracula è un aristocratico per modo di dire. Jonathan Harker – l’impiegato londinese ospite nel suo castello, il cui diario apre il romanzo di Stoker – osserva sbalordito che a Dracula manca proprio ciò che rende «nobile» un uomo: la servitù. Dracula si piega a guidare la carrozza, preparare i pasti, rifare i letti, pulire il castello. Il Conte ha letto Adam Smith: sa che i servi, lavoratori improduttivi, assottigliano il reddito di chi li mantiene. Dell’aristocratico, a Dracula, manca del resto anche la sfrenatezza del consumo: Dracula non mangia, Dracula non beve, Dracula non fa l’amore, Dracula ama i vestiti sgargianti, Dracula non va a teatro e non va a caccia. Dracula non offre ricevimenti e non innalza palazzi. Neanche la sua violenza ha come fine il piacere: Dracula (a differenza di Vlad l’impalatore, il Dracula Storico, e di tutti i vampiri prima di lui) non ama spargere il sangue: è che il sangue gli serve. Ne succhia quanto basta, e non ne perde mai una goccia. Il suo fine non consiste nel distruggere a suo arbitrio la vita altrui, nello sprecarla: ma nell’utilizzarla. Dracula è insomma un risparmiatore. Un asceta. Un campione dell’etica protestante. E infatti non ha corpo. O meglio, non ha ombra. Ovvero, il suo corpo esiste, sì, ma è «incorporeo»”.
Siamo inevitabilmente di fronte al nuovo che irrompe, distrugge e modifica ciò che si illudeva di essere sempre stato e, quindi, di continuare a essere. La figura del vampiro viene dunque interpolata da un indistinto elemento del folclore per diventare potente metafora di un cambiamento epocale indotto dal capitalismo e dalle sue leggi economiche. Ciò che è evidente e interessante è come le creazioni dell’immaginario, grazie all’intrinseca mobilità che gli viene dalla loro stessa natura di elementi non esistenti, possano modificarsi per essere adatte a impersonare sempre nuove forme di paura. Sorge quindi il problema, lungamente dibattuto, del rapporto tra letteratura e realtà e, soprattutto, quello ben più articolato tra letteratura, realtà e immaginario. Dobbiamo a Nicolò Pasero, teorico della letteratura estremamente avaro di testi, una lucida dissertazione sulle insidie che covano in questi rapporti. Nel suo saggio Marx per letterati. Sconvenienti proposte (Pratiche, 1998), Pasero utilizza una sorta di metafora dell’ottica geometrica per parlarci delle ambiguità insite in questi rapporti di riflessione decisamente impuri. Qualcuno pretenderebbe che la letteratura debba riflettere la realtà e, quindi, “si tende a leggere il testo come un clone della realtà, vale a dire che lo si esplora innanzitutto in vista di quanto è più riconducibile a essa”. Il valore estetico di un modello di osservazione del genere si misurerebbe quindi nel “tasso di mimesis” del testo. Potremmo lamentarci, in questo nostro caso, di un crudele realismo, perché, almeno in apparenza, opere come quella del Dracula di Bram Stoker (come del suo fratello ricucito del Frankenstein di Mary Shelley), in quanto a mimesi, sembrano deficitarie. Se la metafora da applicare è quella dello specchio, il caso appena descritto richiederebbe che tra testo e realtà sia interposto uno specchio in grado di riflettere senza deformazioni. Almeno in fisica un tale specchio risulta abbastanza complesso, perché uno specchio piano, per esempio, ci illude di un realismo che avviene attraverso l’inversione dell’immagine stessa. A ben vedere, quindi, questa teoria del rispecchiamento, sembra invece essere sostenuta piuttosto da una lente anamorfica, per cui “il testo, messo di fronte alla realtà, la restituirebbe distorcendola secondo proprie leggi”. Il rapporto tra la realtà e il testo viene quindi interpretato da un biunivoco effetto che dipende da una specifica (e sempre diversa) legge di rappresentazione. Se crediamo utile questa teoria, possiamo dire che ogni testo vive di un rapporto di deformazione con la realtà che è variabile ma sempre esistente. Anzi, è praticata frequentemente una classificazione dei testi in funzione “del tipo di distorsione messa in atto”. Uno dei risultati è avere stabilito, almeno in via teorica, che generi come fantascienza e horror vivono di un loro peculiare rapporto con la realtà e non ne sono affatto slegati o indipendenti. Anzi, il piacere che si prova leggendo questo tipo di testi è proprio dato dalla percezione di questo rapporto, dall’intuirne il gioco esistente tra testo e realtà. Ma il modello, che discende dalla Widesapiegelungs-theorie, prevede anche un effetto negativo del rispecchiamento, ovvero quando l’effetto di transito attraverso la lente o la riflessione dello specchio non arricchisce il dialogo tra realtà e testo. Verrebbe da dire, e questa è una mia riflessione, che il sistema di specchi e lenti che a partire dalla realtà produce il testo, altro non è che l’immaginario o una struttura linguistica strettamente correlata.
Dunque non esiste letteratura estranea alla realtà, ma solo letteratura che instaura rapporti più o meno complessi con essa. Nel caso del vampiro è Karl Marx (Luca Cangianti, “Vampiri marxiani; Roberto Derobertis, “Non bevete questo sangue”; Elisabetta Michielin, “Amare il mostro“) a utilizzare esplicitamente la metafora del vampiro per spiegare il mostro assoluto che, nella sua epoca, si andava sempre meglio configurando. “Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia”, scrive nel primo libro de Il capitale. Il vampiro infatti è un non morto, un essere che grazie a qualcosa di magico o di biologico non può morire, ma neppure vive. La sua possibilità di vivere richiede che succhi l’energia vitale da qualcuno. Per Marx, l’epoca capitalista aveva sancito un’unione contro natura, quella del capitalista e degli operai; un rapporto di assoluto parassitismo a discapito dei lavoratori. “Il capitalista […] si arricchisce nella misura in cui succhia forza-lavoro altrui e impone all’operaio la rinuncia a tutti i piaceri della vita”, così le vittime di Dracula sono indebolite e svuotate. Le pagine di Marx dedicate al capitale e ai capitalisti attribuiscono un ruolo quasi fatale alle classi: non possono essere diverse da quelle che sono. Il capitalismo, in particolare, non può diventare buono e giusto, né può redimersi o rendere giustizia, il capitalismo può solo essere distrutto dai propri nemici, dalle potenziali vittime divenute ribelli e capaci di piantare un mortale paletto di legno nel suo cuore. L’alternativa è la sottomissione: la resa a diventare suoi animali da allevamento. Così è per il vampiro, “obbligato dalla sua maledizione a fare sempre nuove vittime”, senza potersi fermare. Se il primo libro de Il capitale appare nel 1867, la prima pubblicazione di Dracula di Bram Stoker è del 1897. Franco Moretti, quindi, cerca di stabilire una relazione tra Dracula e lo stato del capitale nel 1897, un capitale che “sta per imboccare la strada, irreversibile, della concentrazione e del monopolio”.
Il vampiro in questione è solitario e dispotico, e non tollera la concorrenza, “come il capitale monopolistico, aspira a piegare gli ultimi resti dell’epoca liberale, e a distruggerne ogni forma di indipendenza economica”. C’è dunque, nel sistema di lenti interposto tra romanzo e realtà economica di fine Ottocento, la paura borghese di perdere le proprie libertà faticosamente acquisite, individuali e collettive, attraverso il profilarsi di un monopolio che molto ricorda il potere feudale che ha dovuto sconfiggere per poter esistere storicamente. Dunque tra Van Helsing e il Conte Dracula si sviluppa una lotta tra liberoscambisti e monopolisti, tra libero mercato e riproporsi (sotto nuove vesti) del potere assoluto del mondo medioevale. In questo rapido evolversi, è proprio Dracula che, dal mondo ancora feudale e arretrato delle campagne dell’est europeo, è in grado di proporsi alla City come elemento paradigmatico nel nuovo capitalismo. Moretti individua nella figura di Dracula “il prodotto finale del secolo borghese e la sua negazione”, ed è come negazione che, ambiguamente, prende narrativamente il sopravvento. L’Inghilterra dell’epoca è forse la nazione in cui il capitalismo monopolista è meno sviluppato, motivo per cui la borghesia poteva sentirsi minacciata dalle forme meno liberali che iniziavano a prendere il sopravvento nelle altre nazioni. E non è un caso, scrive Moretti, che Dracula sia uno straniero, mentre i suoi nemici sono inglesi o, come nel caso di Van Helsing, olandese, ovvero un borghese proveniente dalla patria del capitale liberoscambista. Siamo dunque di fronte a una lotta politica spietata tra le metafore della borghesia e quella del capitale monopolista, una lotta che, come vedremo, tiene in disparte la classe operaia. La visione di Stoker del mondo del lavoro manuale e intellettuale è complessa, relegata ai personaggi minori; osserviamo che il loro rapporto con Dracula è positivo: il conte paga in contanti, non tratta sui prezzi e, soprattutto, non succhia loro il sangue. Solo due anni prima era stato pubblicato La macchina del tempo di Herbert G. Wells, e ben diversa era la consapevolezza della divisione di classe e di una perenne ingiustizia che non si spegnerà neppure nel futuro più lontano. Non è dunque il sorgente socialismo, di Robert Owen o di Karl Marx, a muovere le masse contro il vampiro del capitale, ma una borghesia meschina che si oppone a lui con le sue armi ideologiche più letali: denaro e religione. Ed è Mina Harker a mettere in chiaro la disomogeneità del fronte capitalista affermando: “Mi fa pensare al meraviglioso potere del denaro! Cosa non può fare quando è adoperato secondo giustizia; e cosa invece quando è usato in modo vile”. Ma quale sarebbe il modo vile se non quello dell’accumulazione sfrenata, in opposizione a un capitalismo vittoriano che rifiuta e nasconde le proprie contraddizioni, che si accanisce contro la classe operaia per instaurare una nuova schiavitù e trasformare i proletari nei Morlok wellsiani? Evidentemente il capitalismo inglese si autoassolve dichiarandosi migliore e più giusto, eticamente superiore. Ma non sfuggono all’autore i profondi limiti di questa posizione né la sua precarietà. La vittoria sul vampiro, come si diceva all’inizio, è solo temporanea e la minaccia alla società vittoriana è destinata a ripresentarsi in nuove forme. Per Moretti le forze del Bene, se proprio vogliamo chiamarle in questo modo, “sono la versione militante dei benefattori dickensiani”, un misto di scienza borghese, ingegneria e superstizione. Già, superstizione, perché, comunque, la lotta al vampiro avviene con l’armamentario della tradizione: crocifissi, ostie, aglio. Ed è proprio nelle armi che vengono usate contro di lui che cogliamo la doppiezza della sua ragione economica e che lo smascheriamo come evoluzione contemporanea del retaggio e della tirannia feudale.
In conclusione, è bene affermare che una figura dell’immaginario così longeva deve il proprio successo alla compresenza dei diversi fattori che risiedono alla base della sua intrinseca mostruosità. L’analisi marxiana è solo una dei diversi approcci a un testo come questo, confermata nel successo di lettura applicabile ai vampiri successivi a quello di Bram Stoker, e quindi plurimi devono essere i punti di vista. Anche questa è stata un’intuizione di Franco Moretti che richiama all’uso di “strumenti differenziati per ricostruire le radici multiformi della metafora terrorizzante”. Dal punto di vista dell’analisi politica, queste narrazioni sono inevitabili in una società che rimuove i propri limiti e i propri errori, cieca e sorda di fronte all’ingiustizia, e quindi, anche nel modello economico e sociale, si trova a mascherare le proprie paure collettive pur di non ammetterle pubblicamente.
Assieme alla psicoanalisi, altra grande macchina impegnata nella decodifica linguistica delle deformazioni del reale, l’analisi marxista della narrativa fantastica indica che questa letteratura svolge la funzione di “assumere dentro di sé determinate paure per trasformarle in una forza diversa da quella reale: per trasformarle in altre paure, evitando a chi legge di fare i conti con ciò che realmente dovrebbe fargli paura”. Da un lato, quindi, dobbiamo denunciare i meccanismi di tale mascheramento, di una potenziale mistificazione, ma dall’altro stiamo facendo i conti con i limiti della mimesis e, quindi, dei tentativi di aggirare processi di imitazione senza contenuto. Ricorre, a questo proposito, una citazione di Friedrich Dürrenmatt: “è nel paradosso che si rivela la realtà”. Ovvero anche la prassi marxista prevede una profonda attività di smascheramento della realtà, di riduzionismo a volte brutale, di propaganda e cultura, per mettere a nudo la reale dinamica dello sfruttamento e le origini delle diseguaglianze, e offrire alle coscienze, individualmente, gli strumenti per una lettura più efficace del mondo. Lettura che è il primo momento significante di un processo di trasformazione e liberazione, perché Stoker, e con lui tutti gli autori del fantastico, non intendono mistificare la realtà ma interpretarla.
Le citazioni sono tratte da Franco Moretti, “Dialettica della natura”, in Calibano n. 2, Savelli, Roma, 1978 (pp. 77-103)