Nell’aprile di quest’anno, a breve distanza da Storia di Shuggie Bain (Booker Prize, 2020) è uscito Young Mungo, secondo romanzo di Douglas Stuart, scrittore scozzese classe 1976, che più della brillante carriera nel mondo della moda newyorchese o dei premi letterari, si fa vanto del murale che la città di Glasgow gli ha dedicato sulla facciata della Barrowland ballroom: Non ti ricorderai della città, ma ti ricorderai che si ballava.
È uno scrittore popolare, Stuart. Forse per la sua capacità di descrivere – come ha scritto giustamente il Guardian – le “montagne russe emozionali” tipiche delle vite precarie che racconta, fibra della cornice liberista e neo-liberista. Cresciuto da una madre sola e alcolizzata della working class di Glasgow, orfano in adolescenza e precoce lavoratore, Stuart ha dedicato la sua attività letteraria a raccontare i suoi primi venti anni in Scozia, segnati da una storia familiare complicata e dal declino industriale di un’intera nazione.
Il giovane Mungo si colloca dunque sulla scia di Shuggie Bain, raccontando un East End che riporta alla memoria quello del Jack London di Il popolo dell’abisso, dove la mancanza di lavoro, di un luogo che si possa chiamare casa, la violenza e l’abuso di alcol scandiscono le giornate, “cosi umide da non consentire alle persone di piangere”, nemmeno se come Mungo Hamilton hai sedici anni e ti hanno appena ridotto in fin di vita durante una maxi rissa tra bande rivali, cattolici e protestanti.
Al centro del nuovo romanzo di Stuart c’è però stavolta non la relazione del protagonista con la madre, ma quella amicale e erotica con il suo coetaneo James, che ha trovato nell’addestramento dei piccioni una via di salvezza dal degrado che lo circonda, e nel progetto di una fuga la direzione esatta da dare ai suoi giorni. Ma se James sarà in grado di fare progetti, di individuarsi e formarsi, a Mungo tutto ciò non sarà permesso: saranno i poliziotti che compaiono nelle ultime pagine a definire il più piccolo dei fratelli Hamilton. Solo alla fine, quel ragazzino pallido e gracile, figlio del Regno Unito bastonato dal ferro della Thatcher e dall’alcol fortificato, verrà riconosciuto e si riconoscerà per ciò che è. Non più un martire, non più un oggetto o un soggetto sessuale, non più colui che deve colmare l’assenza paterna. Semplicemente, un ragazzo. Solo per pochi attimi, in mezzo allo spartitraffico che lo divide dal resto del suo mondo, Mungo Hamilton sarà visto come l’adolescente che è davvero.
Per questa ragione il romanzo di Stuart non è, a ben vedere, un romanzo di formazione, sebbene ciò che accade e la giovane età del protagonista porterebbe a suggerirlo. Perché Mungo potrà compiere la sua vita solamente nel tempo brevissimo di quelle sette lettere, nello spazio angusto di uno spartitraffico, alle soglie del quale giunge dopo la scellerata decisione della madre di farne un uomo mandandolo in gita con due perfetti sconosciuti, male in arnese come e più di lei. Perché non ci sono specchi per i santi, e per quelli di Glasgow, nemmeno redenzione.