Vernon Subutex, eroe recapitato da Virginie Despentes in un romanzo diviso in tre parti (qui la recensione alla prima parte uscita l’anno scorso) secondo una strategia letteraria che rende agevole il percorso nella struttura – fra emozioni, divertimento, slittamenti in tragedia – della grandiosa città di Parigi. Indubbia estensione dove convive una marea di umanità itinerante intorno a lui, al personaggio seducente e balzacchiano, squattrinato e disorientato, ma sempre in grado di ossessionarsi con i ricordi musicali del pop, del rock e di quanto gli rimane in testa del suo vecchio negozio di dischi: il mitico Revolver chiuso a causa della crisi del vinile. La ricerca della sopravvivenza lo infila in una rete di episodi drammatici e di inferi che talvolta assumono aspetti ilari.
Questa volta la scomposizione di certi classici del romanzo non avviene secondo le regole del cineasta Robert Altman, ma seguendo le più attuali serialità televisive, quelle di prim’ordine per intenderci: dal primo True detective all’ultimo Tales of the City. Canal + non si è lasciato sfuggire, infatti, l’occasione per lanciare la scorsa primavera la sua serie.
La morte ha varie componenti per le strade di Parigi, gli amori memorabili o terribili si infrangono fra noie spaventose e rincorse al più semplice dei cibi che permetta di andare avanti fino al giorno dopo. La durezza cantata da Virginie Despentes ha le reminiscenze di un’epoca che vedeva la sua fine e invece se ne stava preparando un’altra. Ma le cose negli anni 2000 soffrono di disturbi incurabili, la mostritudine è irrevocabile, Vernon la osserva anche con sguardo innocente, procurandogli una simpatia incondizionata. Inutili i riassunti che potremmo inventarci seguendo le più di novecento pagine del romanzo, tradotte eroicamente da una Tiziana Lo Porto che s’intende dei vasti spazi letterari intrecciati a vite off-limits.
Despentes ha vissuto, scrivendone, molte cose, dal suo esordio con Baise-moi (Scopami, Einaudi, 1999) diventato negli anni Novanta romanzo cult per una generazione, al 2012 con Apocalypse Bébé (Apocalypse Baby, Einaudi, 2012). Nella Trilogia le diverse case diventano dimora di anime perdute e allo stesso tempo luoghi in grado di orchestrare le pur minime vie d’uscita dai guai e far avvicinare i fans appropriati alla sopravvivenza. Poiché nonostante i fatti irrazionali, strani equilibri si verificano, ed equilibrismi pertinenti all’esistenza, almeno alla sua continuità. Vernon sa essere ancora discretamente bello, corteggia abili mosse e stronzate, compensa le frustate della droga con la bellezza metropolitana: Parigi gran madre contiene tutto, spudorata e bella anche nel suo grigiore, sebbene leggendari lumi facciano il loro dovere.
La bravura di Despentes, che le ha procurato riconoscimenti non da poco, non teme alcun male, e a ogni pagina sembra rievocare le fonti classiche a cui guarda per niente frettolosa. Non è epoca adatta a tergiversare, questa, men che meno ad adeguarsi a frettolose mode di maniera. La scrittrice conosce molto bene le mondanità sfibrate del secolo scorso, e i femminismi verso cui ha rivolto la sua parola senza perseguire binari scontati. In King Kong Girl (King Kong Theory, Fandango, 2019), per esempio, pornografia e sesso ritrovavano memorie vere e non paragoni artistici.
Nello scontro tra fiction e verità Despentes non si risparmia, abituata a demolire fin da subito le torri d’avorio. Diventa così la biografa di Vernon, la storica delle gesta di colui che traccia la mappa di Parigi come fosse il salotto di casa sua, compreso il popolo che lo attornia, che lo incontra e gli parla. Mentre la Cité non risolve i problemi, ma li contiene come un’arca di stralunate alleanze e ne dispone incontri, scontri, nobiltà e miserie: tutto ciò che nella vita Virginie Despentes si suppone abbia visto e raccolto. Niente affatto contenta ma con manifesta ispirazione.