Forse non sono l’unico che si sia domandato perché cosi pochi nomi femminili compaiano in qualsiasi manuale di storia dell’arte; naturalmente, c’è il fatto della scarsa possibilità di accesso ai mezzi espressivi, e dell’inferiorità femminile sostenuta per millenni dalle civiltà patriarcali, ma i conti non mi sono mai tornati. Io mi sono posto il problema pensando alla musica, ma è evidente che in ogni disciplina artistica la situazione è la stessa.
La risposta che ha cercato l’autore di Vite di artiste eccellenti si pone nella stessa scia di quella che Meaghan Morris, docente di Studi di genere e culturali all’università di Sydney, ha fornito quando alla domanda sulla scarsità di nomi femminili nel postmoderno. “Dove sono finite tutte le donne?” La risposta, non troppo scontata, è lì sotto i nostri occhi: ci sono grandi scrittrici ovunque, nella storia della letteratura, occorre solo cercarle fuori dagli schemi e lontano dai limiti di un punto di vista maschilista sulle arti. Allo stesso modo, il passato è pieno di artiste donne, è sufficiente cercarle senza pregiudizi, e mettere sul piatto della bilancia elementi come lo status sociale della donna, una supposta inferiorità morale che ha resistito per secoli, l’impossibilità de facto di accedere a committenti e mecenati, la dipendenza anche giuridica da un uomo (padre, marito, fratello), oltre a due elementi estremamente interessanti che D’Orazio sottolinea in questo excursus attraverso la storia dell’arte: la reazione dell’establishment culturale maschile che fa quadrato, e l’impossibilità legale per una donna di lavorare con un modello maschio in carne e ossa (il libro si concentra soprattutto sulle arti visuali — ahimè, non si parla di musica).
Confesso che la lettura di Vite di artiste eccellenti mi ha portato a una sconfortante considerazione: quanto più rapido sarebbe stato il progresso della civiltà se mezza umanità non fosse rimasta esclusa dalle scienze, dall’arte, dalla politica? Quanto ci siamo persi, quali possibilità ci siamo giocati, che magnifiche personalità abbiamo dissipato nel pregiudizio, nella religione, nell’oscurantismo?
D’Orazio comincia il suo racconto dall’antichità classica, dove le fonti sono estremamente limitate. Passa poi al medioevo cristiano: contrariamente a quanto si ritiene comunemente, la sistemazione migliore per una donna era il monastero, lontano dalla servitù familiare e dall’assoggettamento giuridico a un uomo. La visione dell’amanuense che tramanda la cultura classica ricopiando a mano i manoscritti antichi è profondamente impressa nel nostro immaginario, e non ci rendiamo conto che anche nei monasteri femminili si procedeva allo stesso minuzioso lavoro; per cui la sopravvivenza della cultura antica è per metà merito delle religiose donne, benché spesso venisse ritenuta inutile vanità firmare il proprio lavoro — per le monache, per lo meno.
La svolta, all’uscita dai secoli bui, non è avvenuta come si potrebbe pensare nei paesi luterani, bensì proprio in Italia. Non è effetto della nuova mentalità protestante: da questo punto di vista, Lutero e i suoi abolirono i monasteri, solo per trasformare l’intera società in un unico, immenso monastero. Il vento del cambiamento comincia a soffiare dall’Italia, e naturalmente nel Rinascimento. È qui infatti che le prime donne riuscirono a laurearsi nelle università, ed è sempre qui che la grande tradizione artistica dei secoli rappresentava un precedente di tutto rispetto. Sempre qui si originò nel Quattrocento la querelle des femmes, che si estese agli altri paesi occidentali, Francia, Spagna, Inghilterra, e che si sviluppò con fortune alterne per quasi cinque secoli. A partire dalla veemente polemica di Christine de Pizan contro le modifiche misogine apportate da Jean de Meung al Roman de la Rose, si sviluppa un dibattito sull’eguaglianza o meno tra l’uomo e la donna – e come sappiamo, incredibile a dirsi, ancora oggi c’è chi la mette in dubbio.
Questo libro ha il grande merito di scovare a portare alla luce molti nomi ingiustamente caduti nell’oblio, e di dimostrare che molte altre promettenti carriere furono stroncate dalla gelosia degli artisti maschi contemporanei, nonché dalle difficoltà di accedere a un’adeguata istruzione e ai mezzi di sussistenza. Era sempre un padre o un marito a assumersi la responsabilità di creare l’ambiente adatto perché il talento di un’artista donna trovasse modo di progredire. Una disciplina invece in cui le donne sono particolarmente presenti è la fotografia, sia perché si parla già del XX secolo, e i costumi si sono evoluti, sia perché l’apprendimento di una tecnica è di durata sensibilmente inferiore alla pittura o alla scultura.
Arrivando ai giorni nostri, potrebbe sembrare che uomini e donne abbiano finalmente le medesime opportunità in campo artistico; in realtà è vero che la donna ha ormai un ruolo paritario nell’arte molto più che nella società, ma è sufficiente seguire le quotazioni sui cataloghi o nelle aste, e la quantità di mostre e l’attenzione dei media per capire che ancora la querelle des femmes ha motivo di continuare.