Donna J. Haraway / Conversazione con Thyrza Nichols Goodeve

Donna J. Haraway, Come una foglia, tr. di Gina Maneri, Tlon, pp. 192, euro 16,00 stampa, euro 8,99 epub

Com’è ritrovarsi dentro un «vortice ambulante e parlante, con questo evento “Donna?”»: così si interroga Thirza Nichols Goodeve, studentessa con un master di studi cinematografici trapiantata dall’East Coast all’università di Santa Cruz «nell’epoca portentosa degli anni Ottanta nella California settentrionale», in colloquio con Donna J. Haraway. Questa edizione di Come una foglia ci informa che Thyrza Nichols Goodeve, allieva di Haraway, è una scrittrice, artista e docente nell’ambito dell’arte e della cultura contemporanee. Ha collaborato con il Whitney Museum of American Art di New York e insegnato in vari istituti d’arte americani. Evidentemente come un autentico “ritrovarsi”, dato che (una decina d’anni dopo) in una «conversazione collaborativa (…) disordinata, associativa», darà vita a un libro che rifletterà quel senso di complessità e di comunanza tra piante e animali (e, quindi, noi) di un’architettura molecolare resasi intelligibile dalla «strumentazione, l’interdisciplinarità e le pratiche del sapere» derivate da tutte quelle eredità, che pur contaminate, non innocenti, hanno costituito la storia evolutiva di noi umani. Dando forma a una riflessione a due (una “simpoiesi”: vero e proprio «processo dinamico di “fare insieme” poetico e materiale») che vede il nostro vivere in un mondo biologico come ciò che propriamente è: “un discorso” piuttosto che “il mondo in sé”. Ecco allora che questa similitudine così strana, ma affascinante, tra noi e una foglia, diventa metafora vivificante di “responsabilità emozionale, etica, politico cognitiva” all’interno di questo, come di altri mondi, e non una sorta di antropomorfizzazione di tutto ciò che non è umano.

Come una foglia è stato pubblicato contemporaneamente all’edizione americana nel 1999 da Baldini&Castoldi, libro intervista di un quarto di secolo fa, “un po’ vecchio e superato?” si chiede l’intervistatrice in apertura della nuova edizione italiana, rispondendosi subito: “Donna Haraway superata – questa sì che è divertente.” Dopo gli altri libri tradotti (Manifesto cyborg, Testimone-modesta, Chthulucene, Le promesse dei mostri) questo libro di “passione e ironia” che attraversa i “fili intrecciati” della sua vita, fa capire, o meglio intuire, le motivazioni profonde che l’hanno portata a interrogarsi sui “concetti di uno e tanti”. Cosa ci lega al tutto, cosa ne è della nostra individualità una volta che ci riconosciamo negli altri di non essere che altri? Figlia dell’illuminismo «non ripudio l’eredità della democrazia, della libertà, tutte quelle eredità illuministiche contaminate. Le vedo in una sorta di modo distorto. Cerco di rielaborarle».

E sul difficile crinale in cui si guarda “il funzionamento del mondo dal punto di vista biologico” ma anche “dal punto di vista metaforico” Haraway, biologa, pone le basi per un nuovo modo di stare al mondo che non può prescindere dal capire il mondo stesso. Dove “capire” il mondo vuol dire “vivere all’interno delle storie” perché “non ci sono altri luoghi dove stare, al di fuori delle storie.” E le storie sono gli unici luoghi di libertà perché sono il prodotto dell’associazione, sempre in divenire, di tutto ciò che compone l’esistente, del loro incessante interagire. In definitiva un altro livello, più consapevole, di stare al mondo: una sfida a cui, semplicemente, sarà impossibile non rispondere. Sempre che si abbia la forza di credere ancora che «futuro e presente non sono ancora definitivamente scritti».

«Ci spostiamo in cucina per parlare», così inizia la lunga intervista di Thyrza e la risposta alla domanda che ci siamo posti è subito chiara e netta: il piacere dichiarato di Haraway per la confusione dei confini non può prescindere da quello per la responsabilità della loro costruzione. Se abbiamo ereditato quindi quella frattura che ci fa sentire come gettati nel mondo, per Haraway fare di natura e cultura un’unica parola non può che essere “un atto di fede”, e il «punto di partenza epistemologico fondamentale è questa commistione in cui la categoria separazione tra natura e cultura è già una sorta di violenza». E comunque, ribadisce, “una violenza ereditata”.

La responsabilità di un’eredità violenta, di uno strappo, una ferita, ma che permette la consapevolezza di un’unità, di un’appartenenza al tutto che ci circonda. “È un cambiamento di Gestalt”. Sapere di appartenere è condizione diversa dalla semplice appartenenza. Certo, sono eredità pesanti quelle che Haraway, pur criticandole, rivendica. D’altronde la nostra storia non è pura, non siamo innocenti e pensare di diventarlo fa parte di quelle astrazioni di cui lei ha solo ripulsa. Le eredità, per quanto contaminate, e forse proprio per questo, ci permettono di lavorare per “cercare di rielaborarle”.