Di che colore è la paura? Cosa c’è di peggio della Paura della Morte? Perché in America la Morte, ma soprattutto il pensiero ossessivo della Morte, è così pervasiva e onnipresente? Questa domanda inquietante è alla base del romanzo di Don DeLillo, White Noise, ed è alla base dell’omonimo film di Noah Baumbach che ne è stato tratto, uscito nel Novembre 2022 e presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia.
La paura è incolore; così è scritto in alcuni testi esoterici, che si utilizzano in misteriosi rituali. La paura è bianca secondo DeLillo, il più grande scrittore americano vivente, secondo soltanto a Thomas Pynchon. Con Pynchon il nostro ha più di un’affinità, sia nelle tematiche trattate (entrambi gli scrittori raccontano sofisticati complotti che sottendono la Storia ufficiale), che nell’uso di un tipo di intreccio estremamente complesso e originale. White Noise, pubblicato nel 1985 in America, tradotto e pubblicato in Italia qualche anno dopo (traduzione di Mario Biondi), è uno dei primi grandi successi di DeLillo, imponendolo all’attenzione mondiale come uno scrittore estremamente originale. Di solito per costruire un romanzo efficace c’è bisogno di una buona idea, e intorno a quella si costruisce la trama. DeLillo invece ha inserito nel suo romanzo diverse buone idee, ognuna degna di un suo sviluppo. Nel Libro di DeLillo c’è di tutto: Hitler e il nazismo, l’estetica dell’incidente automobilistico e dei disastri, l’imminente catastrofe ecologica, la paura della Morte, la critica della società dei consumi., le lotte di potere all’interno dell’Accademia americana, l’ossessione per i complotti, il potere della televisione, l’affermarsi della cosiddetta “Teoria” nelle università americane negli anni ’80, e così via.
L’imminente uscita del film ha ovviamente riportato in auge questo testo straordinario, e ha spinto la casa editrice Einaudi a riproporre il libro dello scrittore italo-americano, facendolo ritradurre da Federica Aceto per l’edizione 2022, ma con risultati abbastanza deludenti, che già altri recensori hanno criticato e sui quali non ci soffermeremo. Tutto sommato, la vecchia traduzione di Biondi regge ancora bene, a distanza di quasi quaranta anni. Bastava fare una bella revisione della traduzione già esistente.
Da un libro così originale è stato tratto l’omonimo film distribuito da Netflix, in cui il regista Noah Baumbach ha cercato di riprodurre sia il chiacchiericcio continuo che caratterizza il romanzo, sia la presenza costante della Morte. Il protagonista del film, Jack Gladney (Adam Driver), professore di Hitler Studies (studi hitleriani) presso l’Università del Midwest americano denominata The-College-on-the-Hill, si interroga in continuazione sulla Morte, e lo stesso fa sua moglie, Babette (Greta Gerwig), detta Baba, che ne è letteralmente terrorizzata, tanto da donare il proprio corpo a un sedicente ricercatore, Mr Gray (Lars Eidinger), pur di ottenere una misteriosa medicina, il Dylar, in grado di sconfiggere la paura della Morte.
Già all’epoca dell’uscita del libro, tutti apprezzarono il vero e proprio colpo di genio di DeLillo. La prima trovata geniale di un Libro in cui ci sono diverse idee formidabili è proprio lo specifico campo di studi creato da Jack Gladney: gli studi su Hitler. DeLillo ha intuito prima di altri la forza evocativa rappresentata dal Nazismo e dalla sua breve parabola storica, sfondo storico perfetto per un romanzo postmoderno. Il Nazismo, lo studio del Nazismo – e della figura di Hitler in particolare – introducono subito il lettore e lo spettatore in un’atmosfera di Morte. Come scrive DeLillo nel suo romanzo, con una folgorante battuta ripresa anche nel film, Hitler non è stato un personaggio “bigger than life”, più grande della vita, bensì un personaggio “bigger than death”, un personaggio più grande anche della Morte, un personaggio che ha imposto un vero e proprio culto di Morte in Germania, un personaggio che con la sua morte “wagneriana” in una sorta di Crepuscolo degli Idoli nel Fuhrerbunker sotto la Cancelleria di Berlino, ha travalicato i confini della Morte. La stessa mitologia nazista della Morte la ritroviamo ancora in alcune formazioni paramilitari contemporanee, come la Brigata Wagner e il Battaglione Azov. Il Culto della Morte, quello che Umberto Eco definiva come “Fascismo Eterno”, continua a prosperare – purtroppo – e continua a fare proseliti.
Geniale anche l’accostamento tra Elvis Presley e Adolf Hitler nella lezione universitaria congiunta tra il Prof. Murray Siskind (interpretato da Don Cheadle) e il Prof. Jack Gladney, una scena centrale nel film, in cui si evidenziano le strane affinità tra una rockstar come Elvis e una figura come Hitler che ha – secondo le opinabili teorie dei due accademici – parecchi dei tratti distintivi della rockstar. Le adunate hitleriane a Norimberga avrebbero più di un’affinità, secondo la logica perversa seguita dai personaggi di DeLillo e ripresa dal regista Naumbach, con i grandi concerti di Elvis o di altre icone del rock. Sembra un’idea campata in aria, eppure anche grandi rockstar come David Bowie sono stati costretti ad ammettere, in alcune interviste degli anni ’70, che Hitler con le masse ci sapeva fare, che in un certo senso era una rockstar anche lui, anzi forse la più grande. Si spiegherebbe così anche un famoso verso di Bowie nella Intro “Future Legend”, che apre l’album Diamond Dogs (1974): “This ain’t Rock’n’Roll / This is genocide”. Evidentemente l’idea era nell’aria in quel periodo, nel mondo anglosassone, tanto che anche il misterioso gruppo californiano di rock sperimentale The Residents (di cui leggenda vuole abbia fatto parte anche Thomas Pynchon), si inventarono un disco scandaloso e irriverente come The Third Reich’n’Roll (1976), un disco in cui il “rumore bianco” prevale sulla melodia vera e propria. Inoltre lo stesso Pynchon, il cui capolavoro, Gravity’s Rainbow (1973), attinge al Nazismo e ai suoi albori a piene mani, nel 1990 ha pubblicato un altro romanzo straordinario, Vineland, ambientato nella California degli anni ’80, in cui si suggerisce che il Nazismo sia ancora vivo e vegeto in California. Anche in Vineland, come in White Noise, abbiamo un’identificazione tra lo schermo bianco della TV e la Morte, tra la TV e la Morte. Parafrasando un famoso aforisma di Oscar Wilde, un regista americano è arrivato ad affermare che la vita, soprattutto la vita dell’americano medio, non imita l’arte, ma “imita la cattiva televisione” (Woody Allen, Mariti e Mogli, 1992).
C’è da chiedersi quale meravigliosa recensione avrebbe potuto scrivere un grande osservatore della nostra società contemporanea come Don DeLillo se si fosse specializzato in recensioni musicali, a proposito dell’ultimo album-testamento di David Bowie prima della morte, Blackstar (2016), album uscito appena due giorni prima che Bowie morisse, un’opera in cui la presenza della Morte è pervasiva proprio come in White Noise. Eppure non è difficile immaginare lo scrittore quasi novantenne che guarda compiaciuto questa versione filmica del suo romanzo, magari intento a canticchiare la canzone finale.
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La Morte è onnipresente nel romanzo e nel film, eppure la Morte non appare più di persona, come nei dipinti o nelle ballate medievali, non appare più come un individuo dal volto pallido e vestito di nero. Essa appare piuttosto in immagini sfuggenti di sconosciuti incontrati per caso in un supermarket, un luogo simbolo del capitalismo che sia nel libro che nel film è ritratto come una sorta di luogo di culto, di cattedrale (post)moderna, un vero e proprio Eden capitalista, completamente artificiale, un’idea che è stata ripresa poi da tanti altri grandi scrittori, come James Ballard (Kingdom Come). Al centro della scena non vi è più una Morte che si diverte a giocare a scacchi con noi, come nel famoso film di Ingmar Bergman Il Settimo Sigillo (1957), ma una Morte che è una presenza costante nella nostra vita, nei nostri pensieri, una Morte che fa la fila davanti a noi al supermercato, una Morte che gioca ancora a scacchi con noi mortali, però per corrispondenza, come fa il figlio di Jack Gladney, Heinrich (Sam Nivola), impegnato in una partita a scacchi per corrispondenza con un serial killer.
Il “rumore bianco” nel titolo di DeLillo fa riferimento proprio a quel chiacchiericcio che ci accompagna in continuazione nel corso delle nostre giornate, un chiacchiericcio che nell’animo di questi individui, membri di una tipica famiglia americana degli anni Ottanta, eterogenea, sgangherata e disfunzionale quanto basta, serve a combattere la loro terribile paura della Morte. Questi individui parlano di continuo e si pongono domande, anche le più assurde, nel disperato tentativo di colmare quel vuoto che li pervade quando si rendono conto, come dice a un certo punto la moglie di Gladney, Babette, che “stiamo tutti marciando verso la non-esistenza”, siamo tutti in marcia verso la Morte. Particolarmente convincenti anche le scene collegate al tradimento di Babette, la squallida storia del tradimento della moglie di Gladney con il truffatore-ricercatore Mr Gray, una sorta di confidence man che sfrutta la paura della Morte per i suoi squallidi affari. Alla fine il Dylar non risolverà i nostri problemi, le nostre angosce. Non esiste alcuna medicina efficace contro la Morte.
Al centro delle vicende della famiglia del Professor Gladney, c’è la continua ricerca di un senso delle cose, gli oggetti di uso quotidiano, i beni di consumo, le merci. Il panorama contemporaneo descritto da DeLillo – e ripreso da Baumbach – è composto da tutta una serie di oggetti di consumo che circondano i protagonisti ovunque vadano. Il film insiste molto su questo aspetto, sulla miriade di prodotti della civiltà dei consumi che ci circondano da tutte le parti, che vivono la loro apoteosi tra gli scaffali dei supermercati, con la loro miriade di colori variegati che hanno lo scopo di attirare la nostra attenzione, fino alla loro morte, rappresentata dalla trasformazione dell’oggetto commerciale in rifiuto, una tematica che DeLillo affronta solo di sfuggita in questo romanzo, ma che ha trattato in modo magistrale nel suo capolavoro del 1999, Underworld. Da questo punto di vista appaiono particolarmente efficaci sia la scena in cui Gladney rovista tra i rifiuti di casa in cerca del Dylar, sia la scena finale che rappresenta una sorta di apoteosi della civiltà dei consumi, con un vero e proprio balletto in stile musical tra gli scaffali variopinti del supermarket, con un pezzo, “New Body Rhumba”, realizzato per il film dal gruppo LCD Soundsystem. Tra le varie corsie variopinte, salta agli occhi una corsia in cui le confezioni dei prodotti sono completamente bianche. Il consumismo e il capitalismo come culti di Morte. Il consumismo e il capitalismo come sistema di controllo, come stile di vita, come sistema politico basato sull’unica libertà che ci è rimasta, la libertà di acquistare, un sistema che ci porterà un giorno al cospetto di quella luce bianca intensissima, di fronte al bianco supremo, accecante, della bomba atomica, alla Morte e alla distruzione (del pianeta). Sarà tutto bianco, come nel Paradiso di Dante al cospetto di Dio, come nella Terza Guerra Mondiale.
Da vedere, ma soprattutto da leggere e rileggere.