Don Andrea Gallo / Intervista a Claudio Calia

A dieci anni dalla scomparsa di don Andrea Gallo, Claudio Calia ripercorre la figura e il lascito del prete di strada genovese attraverso le interviste di chi l'ha conosciuto e collaborato con lui. In questa intervista ci parla della graphic novel Allargo le braccia e i muri cadono (Feltrinelli comics) dedicata a don Gallo ma anche del suo lavoro di disegnatore ed esponente del giornalismo a fumetti.

Di don Andrea Gallo, o il Gallo come lo chiamano alcuni, hai scelto di non scrivere/disegnare la sua vita (se non per pochi cenni) ma di ricostruirne la figura attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto, perché?

È la prima volta che realizzo la biografia di una persona che non c’è più. Avrei potuto fare un percorso diverso: armarmi di fantasia e disegnare Andrea Gallo da piccolo, inventarmi i dialoghi col fratello e la madre, utilizzare il poco materiale fotografico della sua adolescenza e prima maturità per rappresentarlo ai suoi inizi, magari inventare una scena di fantasia ambientata in Brasile per descrivere quel disgusto che dopo un anno lo convinse a tornare in Italia. Ma non è così che mi piace fare i fumetti. Per cui per questo libro ho deciso di lavorare sulla scia di quanto già fatto in passato, con la presunzione di essere migliorato un po’: il lettore che vuole conoscere la biografia di don Gallo uscirà soddisfatto dalla lettura del libro, solo che le informazioni sono raccontate come frutto di una inchiesta giornalistica sul campo. Sono, letteralmente, “i ragazzi di don Gallo” a raccontarci la sua vita e, soprattutto, quanto la sua vita ci ha lasciato di palpabile ancora oggi.

Nel libro ogni testimonianza è intervallata da ‘parole chiave’ lasciateci da don Gallo (trans, pace, comunismo, chiesa…) qual è quella che ti ha più colpito e che secondo te è la più significativa a descriverlo e comprenderlo?

 “Speranza”. Credo ce ne voglia davvero molta per una vita al servizio degli ultimi come è stata la sua.

La figura di don Gallo è sicuramente quella di un grande ‘irregolare’. Non è un caso che la sentano come propria sia i credenti che i laici.  Perché – secondo te – in Italia, per il popolo di sinistra che sì è molto riconosciuto in lui e nelle sue pratiche, non c’è stata e non esiste tutt’ora una figura laica capace di essere di parte e fare un discorso universale come faceva don Gallo?

L’idea che mi sono fatto è che la figura di don Gallo non può essere considerata “un modello”. Non lo è stato per la Chiesa, non lo è stato per la sinistra. Non è replicabile! Penso ci siano persone che, semplicemente, a un certo punto della Storia “accadono”. Passano su questa terra con il loro carico di intuizioni e contraddizioni, ce ne lasciano un po’, suggeriscono qualche via, e poi scompaiono. Ma più che cercare il prossimo “fenomeno” credo che la cosa più importante sia assumersi la responsabilità collettiva dei contenuti che Andrea e la sua Comunità hanno portato e portano avanti ancora oggi: sono quelli che dobbiamo tenere con le unghie e i denti al centro di un discorso universale come faceva don Gallo. Poi certo, sarei ingenuo a non credere che il fatto che fosse un prete in qualche modo facilitasse la sua presenza pubblica, per un ateo di sinistra sarebbe molto più complicato raggiungere certi tipi di attenzione. Anche per questo la sua figura è di fatto insostituibile.

Nel fumetto compari anche tu, che rapporto hai avuto con don Gallo?

A differenza di molti non ho il “grande racconto” su quando ho conosciuto don Gallo. È stato molto semplice: da un certo punto in poi quel prete stava là, dove stavo io. Potevo trovarlo in una stazione a bloccare i binari per impedire il passaggio dei treni delle armi, o durante un corteo contro l’allargamento della base Dal Molin, o anche solo a fare una chiacchierata al centro sociale. Lui era là.

 

Don Gallo è stato importantissimo per la generazione Genova , pensi che possa essere di ispirazione anche per i ragazzi oggi? 

Ora che sono reduce dal primo mese di tour in giro per l’Italia a presentare il libro, mi rendo conto che il tempo passa velocissimo e per i più giovani don Gallo è già, quando va bene, un ricordo lontano, qualcosa di sentito dire, un prete con cappello, sciarpa rossa e sigaro esistito tanto, tanto tempo fa. Quello che mi spaventa di più però è che più che la sua figura manca la sua voce, manca quella voce, quei contenuti, nel dibattito pubblico. Io spero che conoscere oggi la figura di questo prete di strada possa essere utile per passare ai ragazzi di oggi la fiaccola dei contenuti e delle lotte, più che del feticcio del ricordo.

Tu sei un esponente del fumetto giornalistico… Quali sono stati i tuoi maestri, il tuo lavoro si può associare al giornalismo gonzo? Come scegli i soggetti dei tuoi libri?

Dipende. Questo libro mi piace definirlo “nato dall’amicizia”. Ero a Genova durante le celebrazioni del ventennale dai giorni del G8, presentavo insieme a altri fumettisti il volume antologico Nessun rimorso a cura di Supporto Legale e edito da Coconino Press. Ho rincontrato dopo anni Milena, mia ex-collega nella redazione di Radio Sherwood tanti anni fa, e il suo compagno Domenico Chionetti che è stato la persona che ha seguito don Gallo negli ultimi lustri della sua vita: portavoce, autista, tuttofare, neppure lui ha un termine univoco per definirsi. Come (troppo) spesso succede, a un certo punto Domenico (detto Megu) butta letteralmente sul tavolo (eravamo a pranzo) l’idea di realizzare un graphic novel su don Gallo a dieci anni dalla sua scomparsa (due anni dopo il nostro incontro, dunque). Dico che succede troppo spesso perché da fumettista mi ritrovo davvero troppo spesso in questa situazione: tutti hanno sempre un’idea su che libro dovrei fare io. Ma qui c’erano Milena, c’era Megu che non vedevo da anni e si è preso cura di me in questi tre giorni a Genova, e soprattutto c’era don Gallo, una persona per cui ho provato sempre un grande affetto nonostante una certa distanza (sono la persona più lontana da qualunque concetto metafisico o trascendente che conosca). Un anno dopo a sorpresa Feltrinelli Comics mi ha rivelato il loro interesse nel pubblicarmi, confusamente ho proposto un soggetto – approvato – sull’Iraq, che è meta dal 2016 di molte mie avventure, per poi ritornare sui miei passi ricordando le chiacchiere genovesi di un anno prima, e raccontare il giorno dopo al direttore di collana Tito Faraci l’idea su don Gallo, accettata entusiasticamente con una stretta di mano.

Faccio giornalismo a fumetti e di questo genere particolare il “maestro” è senz’altro Joe Sacco. Ho avuto l’opportunità di frequentare un corso intensivo di tre giorni con lui, a Ravenna, agli inizi del 2000. Certamente il genere mi interessa ed è quello che prediligo e che mi è più richiesto, ma ammetto che le mie ispirazioni poi vengono dalle fonti più varie: con la giusta misura credo che i miei fumetti siano pieni di suggestioni che mi vengono da ciò che leggo, che solo raramente è giornalismo a fumetti. Probabilmente c’è più Spider-man di “da grandi poteri derivano grandi responsabilità” nei miei fumetti che rigore giornalistico “a la” Joe Sacco.

Come costruisci le tue tavole con quelle campiture uniformi così caratteristiche. Usi le chine oppure lavori con programmi digitali?

Allargo le braccia e i muri cadono è il primo libro che realizzo interamente in digitale. Ho utilizzato un iPad mini (eh sì, è dai tempi della carta che prediligo lavorare su formati “piccoli”) con penna e Procreate come software. Ho rifuggito il digitale per la maggior parte della mia vita, perché sono sempre al computer per lavoro e tenevo il fumetto al riparo da questa cosa. Ho sempre lavorato nel campo dell’informatica e il fumetto era il mio rifugio sicuro, dove potevo sporcarmi le mani con china e pennarelli. Poi ho provato tavolette grafiche e niente, non riesco proprio a farmi una ragione di disegnare su un supporto (la tavoletta) guardando da un’altra parte (lo schermo); ho avuto un Surface Pro con pennetta ma anche là la sensazione della penna sullo schermo liscio non faceva per me. Poi a un certo punto ho deciso di investire di più sul fumetto, di lasciarmi alle spalle alcuni lavori informatici e scommettere su questa cosa. Ho realizzato un manifesto per una importante manifestazione, a mano, e con i soldi mi sono comprato il primo iPad. Ora saranno un paio d’anni che a parte davvero rarissime occasioni non tocco carta. Lungi da me fare l’elogio di alcuna multinazionale, ma la quadra trovata da Apple per l’iPad come strumento per disegnatori è davvero formidabile.

Una ulteriore domanda sorge spontanea: ti aspettavi questo successo per il libro su Don Gallo? mi pare che sei ogni giorno impegnato nelle presentazioni…

È vero che ho dedicato il primo mese e poco più di uscita del libro a un sacco di presentazioni, sono effettivamente a spasso almeno due volte a settimana da quando è cominciato tutto. Ecco ma la verità è che… per fare molte presentazioni, basta dire sì a chi te lo chiede, e sono comunque tantissimi ed è impossibile dire sì a tutti anche per un piccolo fumettiere di provincia come me. Mi piacerebbe questo avesse a che fare con un ipotetico “successo” del libro, ma in realtà per avere dati reali di vendita devo aspettare sostanzialmente un anno. Le presentazioni vanno molto bene, sento il calore delle persone interessate al libro, vedo che è stato accolto da un entusiasmo forse più frizzante rispetto ai miei libri precedenti, ma siamo nell’alveo delle impressioni, non usciva un mio libro da qualche anno e ho deciso di rimettermi in pista con vigore. Ogni presentazione è un’occasione per fare conoscere il libro, sia ai presenti che a chi inciampa nella promozione degli eventi stessi. Il libro è uscito da poco più di un mese ora che scrivo, ne ho ancora alcune davanti ma la vita, poi, riprende il suo corso e sostanzialmente son qua già a prepararmi i bagagli per il prossimo viaggio in Iraq.

Conosciamo molto i fumetti dell’estremo oriente, meno quelli di zone più vicine: il Nord Africa o il cosiddetto Medio Oriente, tutti Paesi che nel nostro immaginario significano solo, guerre, distruzioni, migrazioni forzate… Eppure non sono solo questo.  Cosa ci puoi raccontare su queste realtà dal punto di vista di chi – come te – in quelle zone tiene corsi e workshop di fumetto?

Quello che posso dire con una battuta semplice è che “è tutto falso”. Io stesso prima di arrivare in Iraq la prima volta pensavo che mi sarei trovato in un deserto popolato da beduini (detto senza alcuna accezione dispregiativa). Ho trovato una società giovane, curiosa, intrisa in una strana commistione tra tradizione e cultura pop. La prima volta che sono stato nell’Accademia di Belle Arti di Dohuk ho trovato opere in linea con i movimenti dell’arte contemporanea internazionale, alcune avrebbero potuto essere esposte al MOMA di New York senza sfigurare. Sulaymaniyya, la capitale culturale del Kurdistan iracheno, è una metropoli senza nulla da invidiare alle tante altre nel mondo, a parte i problemi strutturali della nazione (l’elettricità ballerina e i rifornimenti d’acqua potabile, soprattutto, e una certa intrusione della religione nella vita di tutti i giorni anche per chi credente non è – ma meno di quanto mi sarei aspettato). I ragazzi che partecipano ai miei corsi leggono le stesse cose che leggono i ragazzi italiani (anzi, vista la vicinanza geografica il fumetto giapponese, cinese e coreano là hanno ancora più influenza se possibile) e i ragazzi americani, guardano gli stessi film scaricandoli come fanno tutti i giovani del mondo. Hanno gli stessi desideri.

È diffusa la lettura dei fumetti? Quali fumetti e autori conoscono e leggono?

Il mio primo viaggio è stato nel 2016 e no, mi sono ritrovato in un paese in cui perfino la parola, “fumetto”, non esisteva. Si mutuano termini stranieri: “graphic novel”, “comics”, “Bd”. Con il mio amico Shirwan Can dovevamo dare il nome a una esposizione di fumetti e ci siamo resi conto che oltre al termine “caricature” (che sarebbe la nostra satira) non c’è una parola in curdo per definirlo. Poi ci sono gli appassionati di fumetti, che comprano Comic Books in inglese nell’unica fumetteria di Baghdad (all’interno di un centro commerciale, molto fornita), e come per il cinema amano esattamente quello che leggono tutti gli appassionati di fumetti nel mondo, almeno per quanto riguarda le produzioni mainstream. Pur non essendoci una industria del fumetto, negli ultimi anni hanno cominciato ad apparire coraggiosi tentativi di pubblicazione, supportati prevalentemente dagli istituti di cultura francese e tedesco: negli ultimi due anni sono usciti almeno quattro libri di giovani partecipanti ai miei workshop, a ricostituire una “scena del fumetto iracheno” che ha cominciato a fare capolino anche in importanti festival in Africa e in Occidente. Ovviamente c’è una memoria dei fumetti prima della guerra, ho acquistato un vecchio numero di Superman in arabo, ma decenni di conflitti non hanno certo agevolato lo sviluppo di una industria culturale.

Quali sono gli autori di quelle terre da tenere sott’occhio? Le caratteristiche della produzione di fumetti? Le difficoltà?

Linus” mi ha fatto una bella sorpresa un paio di anni fa: ho pubblicato una storia sul mio viaggio a Baghdad in cui raccontavo di avere conosciuto il (giovane) fumettista iracheno Hussein Adil, e subito dopo nella rivista hanno pubblicato una sua storia, reperita da un magazine statunitense. Ecco, Hussein Adil sta lavorando da anni al suo libro, che uscirà in Francia, e quando succederà sarà folgorante. Parliamo di un ragazzo di Baghdad, musulmano, che ha ottenuto diritto d’asilo in Francia per poi tornarsene in Iraq scandalizzato dal razzismo anti islamico che ha percepito in Europa. Un continente fatto su misura per “maschi bianchi e cattolici”, dice. E poi c’è tutto il lavoro del mio amico Shirwan Can, vero animatore della scena fumettistica irachena, fondatore del Paia Studio che è la realtà da cui vedremo emergere tanti progetti fumettistici nei prossimi anni, con autrici come Rooz Mohammed e Luna Darwesh che hanno già cominciato a dimostrare il loro talento.

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