Sul cinema, arte regina dell’immaginario, si può scrivere e si scrive in diversi modi: l’analisi critica, la recensione, il saggio poetico, l’intervista, la raccolta di memorie. Tra queste forme, la più coinvolgente è forse quest’ultima, che lascia la parola a chi il cinema l’ha fatto e lo fa: attori, registi, sceneggiatori, tecnici, figure di varie professionalità. Un intervistatore abile può carpire testimonianze uniche, illuminando il fare artistico e produttivo, la genesi e il valore di un’opera, ma anche quegli aspetti umani e relazionali che solo chi ha vissuto in prima persona determinati periodi ed eventi è in grado di raccontare.
Con questa progettualità in mente, Domenico Monetti e Luca Pallanch, colonne della Cineteca Nazionale, già componenti dell’area editoriale del Centro Sperimentale di Cinematografia e redattori della rivista “Bianco e Nero”, hanno racchiuso in un volume il frutto di anni d’incontri e d’interviste con donne e uomini del mondo della celluloide. Il libro inaugura una nuova collana, che vuole configurarsi come una “Storia orale del cinema italiano”, nata dalla collaborazione tra la Cineteca Nazionale e la casa editrice romana, da sempre attenta alla settima arte.
La figura professionale su cui il volume concentra l’attenzione è quella del produttore cinematografico, “categoria paradossalmente trascurata”, come notano gli autori nell’introduzione, forse perché spesso percepita come antagonista del regista, attenta solo al dato economico. Così, evidentemente, non è, basti pensare ad Alfredo Bini, a cui dobbiamo i film di Pasolini, o a Goffredo Lombardo, che per realizzare Il Gattopardo di Luchino Visconti si coprì di debiti. In realtà, si deve ai vari Ponti, De Laurentiis, Amato, Rizzoli, Cristaldi e numerosissimi altri se il cinema italiano ha saputo ricavarsi uno spazio considerevole a livello mondiale, producendo pellicole rimaste nella storia.
Il volume in questione ha un importante antecedente: Capitani coraggiosi, edito nel 2003 dal Centro Sperimentale con Mondadori Electa, curato da un esperto come Steve Della Casa e dedicato al lavoro dei produttori italiani fra 1945 e 1975. L’ambito cronologico del libro di Monetti e Pallanch si sovrappone in parte a quell’opera, ma ne costituisce un imperdibile completamento, poiché comincia da pionieri degli anni Cinquanta come Edmondo Amati e arriva sino ai Novanta, dominati da Cecchi Gori & Berlusconi, indagando anche figure apparentemente minori “che, in una stagione di decadenza, si sono rivelate comunque decisive e perfino salvifiche”.
Il libro si propone come uno strumento di analisi delle dinamiche più interne del cinema, spesso sottovalutate dalla critica, ed è di estremo interesse poiché le interviste gettano luce sul febbrile “dietro le quinte” del cinema italiano, sulla sua meravigliosa miscela di alto e basso, di idee geniali e di ripicche, di pastoie burocratiche e minimi garantiti, di cambiali e scatti d’umore. Nelle parole degli autori, “un’armata Brancaleone popolata di geni misconosciuti e personaggi improbabili, ora agevolati ora ostacolati dai mutamenti della società italiana, dalle ricorrenti crisi del settore, dalle varie rivoluzioni audiovisive, ma tutti impegnati nel gioco più bello e complicato del mondo, in un’epoca in cui il gioco era ancora più complicato e più bello, quando la parola digitale si usava solo per le impronte delle dita”.
Si scopre poi una miniera di gustosi aneddoti, di imprevedibili retroscena: l’attore Maurizio Merli, che spopolava nei polizieschi degli anni Settanta prima della fine prematura, lanciato nel cinema perché il suo collega Franco Nero aveva cachet troppo alti; il regista Carlo Lizzani che con un controcampo manda in tilt la troupe francese del suo film Un’isola; Adriano Celentano che fa i capricci come un bimbo; Nanni Moretti che accetta di interpretare Il portaborse di Daniele Luchetti al posto di Flavio Bucci; Michelle Pfeiffer che non recitò in Mamba di Mario Orfini per un caso; l’indimenticato Luciano Salce che gironzola sornione per la villa di Roberto Infascelli; Francesco Nuti che da campione del box office si trasforma in mina vagante, e così via.
Figurano anche le testimonianze di produttori appartenenti a storiche famiglie di “cinematografari”, a cominciare dai Cecchi Gori, il padre Mario e il figlio Vittorio, che, un po’ come i fratelli Taviani, sono stati spesso considerati quasi un’unica entità. E già solo la loro vicenda indica spunti di riflessione: lo scorrere inesorabile del tempo, la diversità generazionale, le mutazioni del cinema, i cambiamenti sociali e produttivi. Padri e figli erano anche gli Sbarigia, Giulio e Roberto, al cui nome è legata la storia della celebre società di doppiaggio Fono Roma, oltre che film di culto di Lucio Fulci ed Enzo G. Castellari. E ancora, gli Appignani, Aldo e Luciano, attivi nella distribuzione e nella produzione. E ancora, gli Amati: Giovanni, il re delle sale cinematografiche, ed Edmondo, il produttore, personaggi assurti a leggenda, dal fiuto finissimo, la cui opera è tutt’oggi portata avanti dal figlio di Edmondo, Maurizio. Non potevano poi mancare gli Infascelli, ormai arrivati alla quarta generazione. Infine, Nicola Carraro, nipote di Angelo Rizzoli, il quale, oltre all’impero editoriale, ha lasciato un segno indelebile anche in campo cinematografico.
Tra le righe si evocano di continuo anche altri clan, poiché quella del cinema italiano appare davvero come una grande (e non di rado litigiosa) famiglia allargata: i De Laurentiis, con i tre produttori, Dino, il fratello Luigi e il nipote Aurelio, ben presenti nella memoria collettiva; gli Alabiso, divisi tra produzione e montaggio. E così, in un affascinante trama di rimandi tra storie e leggende, il libro giunge alla conclusione lasciando nel lettore il gusto dell’attesa dell’altro che lo seguirà.