Dalla Belle Dame sans Merci alla Morta innamorata. Lo sguardo (maschile) sul desiderio delle donne
Nel suo libro sulla Differenza sdoppiata (Splitting the Difference: Gender and Myth in Ancient Greece and India, 1999), Wendy Doniger offre penetranti osservazioni a proposito di Lucy Westenra, uno dei personaggi più ambigui e suggestivi in quel modello di ambiguità e suggestione che è il Dracula di Bram Stoker [Gallo].
Salvato, negli ultimi decenni, dalle secche della ‘letteratura di genere’, studiato nelle sue complessità narratologiche, riconosciuto come testo fondativo di una tradizione – ancor più dei suoi tanti precedenti, fra cui The Vampire di John Polidori e Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu– il romanzo di Stoker, uscito sul finire del Diociannovesimo secolo (1897), è stato definitivamente consacrato dalla versione cinematografica di Francis Ford Coppola, ultima di una lunga serie, a quasi cento anni dalla sua pubblicazione (1993). Un’opera filologica e insieme visionaria, per la quale la costumista giapponese Ishioka, con squisita raffinatezza, si è ispirato a disegni di Gustav Klimt.
Nel romanzo come nel film, a confronto di Lucy, il conte malefico appare persino unilaterale. Fanciulla innocente e pura, almeno in apparenza, Lucy si propone come un’idealizzazione della cultura vittoriana, di cui in profondità incarna invece le contraddizioni e la doppia morale. Non solo la ragazza è sedotta da Dracula, morsa e resa quindi un vampiro, ma si trasforma anche in una ‘immonda Cosa’, o almeno tale viene descritta dal dottor Seward, che è un suo spasimante: dettaglio non trascurabile. Infatti, “anche Seward è scisso fra il desiderio sessuale e la repulsione” commenta Wendy Doniger. “La Lucy grottesca è la sua stessa proiezione, o forse la proiezione di Bram Stoker della proiezione di Seward. Possiamo ben immaginare che il dottor Seward abbia represso una buona dose di odio per Lucy, la quale, dopo tutto, ha brutalmente respinto il suo amore” (p. 283).
Da idolo sentimentale, Lucy è diventata un mostro. Una Cosa immonda. I suoi occhi sono impuri, accesi da fiamme infernali; la bocca unta di sangue, i denti aguzzi e animaleschi. L’amore di Seward si è mutato in odio e disgusto. “Se fosse stato necessario ucciderla,” dice Seward, “lo avrei fatto con selvaggio godimento”.
Un innamorato respinto vede la donna che ha venerato come una creatura orrenda, demonica, minacciosa. Una sorta di belva da sopprimere. Accadeva la stessa cosa, nelle antiche religioni pagane, quando un culto si avvicendava a un altro. Accadde la stessa cosa quando il cristianesimo volle distruggere tutti insieme i culti pagani. Per la Chiesa delle origini, i vecchi dèi non erano altro che demoni. Così, nei primi secoli del cristianesimo, il pantheon grecoromano, tanto ricco di figure meravigliose e benefiche, rappresentazioni della fertilità, della natura e della gioia di vivere, divenne per i Padri della Chiesa una congrega diabolica. Le figure femminili, in particolare, erano considerate temibili, e più di tutte quella dell’Arcidiavolessa Venere, come spiega Heinrich Heine negli Dei in esilio (Adelphi).
Chiusa nel suo incantato Venusberg, la grande dea pagana irretiva baldanzosi giovanotti in cerca di avventure e di piaceri, per farne delle larve prive d’anima, destituite di vitalità, vampirizzate. Il più celebre di questi è Tannhäuser, a cui Wagner ha dedicato l’opera omonima (1845).
Nell’Europa medievale, pervasa dal sacro fuoco del misticismo cristiano, il simbolo stesso del paganesimo edonista, la Venere degli amori e della bellezza, dello splendore corporeo e della voluttà, diventa una femme fatale insidiosa, predatoria e perditrice.
Gli studi freudiani ci hanno insegnato come l’eccesso di desiderio, se inappagato, susciti inibizioni e provochi complessi di colpa, rimozioni, aggressività repressa che riflettono l’immagine dell’oggetto d’amore in uno specchio deformante. Così la donna troppo desiderata e mai ottenuta, nelle fantasie dell’amante rifiutato, si trasforma in un mostro pericoloso, subisce amputazioni che la deturpano, o rimane bella ma diventa crudele e spietata. Le varietà di questa ‘soluzione finale’ sono innumerevoli; gli esiti di tali fantasticherie (maschiliste e masochiste) hanno dato vita a figure-simbolo quali la femme fatale già nominata, la vampira vera e propria che diventa vamp cinematografica nel primo Novecento (le dive del muto, tutte scatti e sguardi torvi, nerovestite, a occhi strabuzzati, il cui modello imperituro è Theda Bara), la medievale Belle Dame sans Merci, in vario modo seduttive, temibili, necrofore o solo orgogliose e sprezzanti.
Se confrontiamo la versione quattrocentesca della Belle Dame di Alain Chartier e quella ottocentesca di John Keats, scopriremo che una damigella piuttosto assennata, benché freddina, diventa dopo quattro secoli una misteriosa figura, figlia di fata e memore di trappole alla Venusberg. La signorina di Chartier osserva che il cuore del cavaliere “ha una gran voglia di vivere in lutto” e che lei non ha scelto d’essere bramata sino alla follia. L’evanescente fantasma d’amore keatsiano ha le sembianze di una donna del destino che distrugge chi la ama, e qualche critico ha notato l’analogia fra ‘belle dame’ e ‘belladonna’, la droga di cui era schiavo il giovane poeta sfortunato.
Culture differenti, lontane nel tempo ma accomunate da un latente maschilismo, hanno inventato personaggi mitologici come Eva, Pandora e anche Lilith, la prima e dimenticata moglie di Adamo, da lui ripudiata e cacciata. Le prime due provocano danni non solo al loro uomo ma all’intera umanità, Eva inducendo al peccato e Pandora liberando tutti i mali del mondo, racchiusi in uno scrigno, per semplice curiosità; ma Lilith è più arcana, ha una sua perversa grandezza, perché raffigura i poteri del Femminile Oscuro, le sapienze primigenie del matriarcato originario che precedeva, secondo alcune teorie antropologiche, l’avvento delle divinità celesti e maschili, nonché dei monoteismi fallocratici.
Il paradigma, così, sembra impeccabile: sono le menti maschili a rendere le donne mostruose. Ma i sentieri del mito risultano più complicati delle interpretazioni contemporanee, facili e manichee. Sono più spesso le maghe e le Dee, nel mito, a fare delle loro simili dei mostri. Apollo non toglie la bellezza a Cassandra, dopo averla concupita inutilmente. Le sputa in bocca, conferendole insieme il dono della veggenza e la condanna a non esser mai ascoltata. Invece la maga Circe, gelosa della bellissima Scilla, non esita a trasformarla in un essere duplice: donna con sei teste, secondo Omero, dotata di un’appendice pisciforme da cui sporgono sei musi di cani famelici. Medusa, rivale di Atena per lo splendore delle sue chiome e violata da Poseidone in un tempio della dea, è resa da quest’ultima una creatura terrificante, dalla testa irta di serpenti, con zanne di cinghiale, mani di bronzo e uno sguardo che pietrifica.
Ma la punizione più crudele è quella che Era infligge a Lamia, la cui unica colpa è quella di essere amata da Zeus, con cui partorisce figli che muoiono uno dopo l’altro, uccisi dalla dea irata, la quale toglie a Lamia anche il sonno in cui può temporaneamente dimenticare il suo dolore. Disperata, la ragazza si rifugia in una grotta solitaria da cui esce durante le sue notti di veglia febbrile solo per rapire e divorare i bambini delle madri più felici di lei. È Zeus ad avere pietà della sua amata e le concede il dono di togliersi i globi oculari, per evitare gli orrori della vista, e di deporli in un vaso.
Proprio Lamia, insieme a Mormo, Acco, Gello e altri demoni femminili, entrerà a far parte, nel mito, della schiera di Ecate, una delle personificazioni lunari, meno fulgente di Artemide/Diana o Selene: Ecate è la Luna Nera, ombra e ricettacolo di tutto quel che di negativo i mitografi hanno intravisto nella personalità della donna (o che non hanno saputo comprendere). Ecate è la signora degli incantesimi più pericolosi, è l’ululato dei cani e dei lupi nella notte, discende da una stirpe titanica e appartiene quindi alle generazioni più arcaiche delle divinità elleniche; è l’inventrice della stregoneria. Questo però nei racconti più tardi del mito: anche Ecate è stata demonizzata. Ma non dal cristianesimo, bensì in quel misterioso e lontano passaggio dalle divinità ctonie (quindi legate ai poteri della Terra) ai numi celesti e solari; nei tempi e nei testi più antichi, Ecate era una dea caritatevole, prodiga di grazie e di prosperità, che concedeva una pesca abbondante o la vittoria in battaglia, il dono dell’eloquenza o la salute del bestiame. Per la gioventù era una ‘dea nutrice’. Nel dipinto di un cratere attico del V secolo a.C., conservato presso il Metropolitan Museum di New York, è Ecate, con due torce in mano, a guidare Hermes che conduce Persefone fuori dall’Ade. Il suo legame, analogico e affettivo, con Demetra, la dea delle Messi, è qui reso molto chiaramente, perché era stata proprio la madre di Persefone, anche lei con due torce in mano, a cercare sulla terra la figlia perduta. E in alcuni miti Ecate è fra i pochi Dei ad aiutare Demetra nelle sue ricerche, perché tutti nascondono alla madre in ansia la verità: sua figlia è stata rapita dal Signore degli Inferi. Un esempio di solidarietà femminile.
I tre volti che avevano le statue di Ecate erette ai crocicchi, veglianti sulle strade che si incrociavano, sembrano identificare i tre volti essenziali della femminilità nel mito: la funzione materna, generatrice; il potere seduttivo, ammaliatore o vampiresco; il cuore della terra, da cui siamo venuti e in cui di nuovo ci accoglierà la morte.
Le interpretazioni più articolate della femminilità mitica sono in grado di raccogliere e dispiegare questi aspetti molteplici, come il ritratto di Lamia, ancora da parte di Keats, innamorato del mito, nel poemetto che da lei prende il titolo: Lamia è una donna serpente, rapinosa ed enigmatica. Non è possibile ascrivere la sua figura a categorie positive o negative, perché come la natura è benefica o feroce, dato che assomma le caratteristiche dell’umano e del ferino. Come la donna vampiro, del resto. O come la ‘morta innamorata‘ che costituisce una vera e propria ossessione tematica nei racconti di Théophile Gautier, preparata dalla lunga tradizione romantica in cui il legame fra la morte e l’amore esercita un fascino inestinguibile, come vedremo fra poco.
Il vampiro è un simbolo dinamico di tale legame, quanto dell’ansia perpetua, della sotterranea violenza e del parassitismo della passione, che vorrebbe impadronirsi del proprio oggetto, inglobarlo, come il vampiro fa con il sangue della sua vittima. Wendy Doniger cita opportunamente un romanzo di Whitley Strieber, The Hunger, del 1981, da cui fu tratto il film omonimo di Tony Scott, diffuso in Italia con il titolo Miriam si sveglia a mezzanotte (1983), con Catherine Deneuve, David Bowie e Susan Sarandon.
Nel romanzo come nel film, al binomio donna-vampiro si aggiunge un terzo elemento: la dimensione saffica, che a dire il vero non è una novità, ma risale almeno al poema incompiuto Christabel di Samuel Taylor Coleridge (1816), ma anche al romanzo breve Carmilla di Le Fanu (1872). L’esclusione maschile da questo regime del desiderio, autarchico e retto da leggi misteriose – obliquamente esplorato da Charles Baudelaire, che però si ferma, sedotto ma guardingo, alle soglie del regno proibito – fa delle donne che si amano, semplicemente, esseri imperscrutabili, mostri di sterilità, creature angoscianti e suscitatrici di bramosie inappagabili nell’immaginazione degli uomini, che le venerano e insieme le temono. Dopo l’amore, Delphine giace ai piedi della sua amante, Hippolyte, saziata da un pasto cannibalico (o un amplesso vampiresco):
Delphine la couvait avec des yeux ardents,
Comme un animal fort qui surveille une proie,
Après l’avoir d’abord marquée avec les dents
“Delphine la scrutava con i suoi occhi ardenti/ come un forte animale sorveglia la sua preda/ dopo averle impresso il marchio dei suoi denti” (da Femmes damnées). Lontana, nei millenni, risuona la voce della mâle Sapho -“la maschia Saffo” nella definizione di Baudelaire – che individuava invece un altro tipo di vampirismo. È l’uomo simile a un Dio che siede accanto alla sua amata a succhiarle via la vita, è la sua presenza a tramortire la poetessa inerme di fronte a colui che le sottrae l’oggetto di un amore senza speranza: “Basta che lui ti getti uno sguardo/ e subito la voce mi manca./ La lingua si spezza,/ un fuoco sottile mi scorre sotto la pelle/ e lo sguardo si offusca,/ un freddo sudore mi prende/ e sono più verde dell’erba/ e mi sento vicina alla morte.”
Non è un genere o l’altro ad avere particolari connotazioni vampiriche, sembra suggerire Saffo, con arcaica saggezza: è il potere che noi attribuiamo a un essere specifico a farne un dominatore, una preda sfuggente, un carnefice, una vittima, un vampiro.
È Théophile Gautier, cultore dell’art pour l’art e inventore di un’eroina crossdresser come Mademoiselle de Maupin, ad aver indagato più a fondo sulle complicazioni del desiderio impossibile e sul senso del peccato che impedisce la sua realizzazione, ritornando con insistenza sul tema della morte amoureuse, che ha l’unico ma ahimè decisivo problema di possedere ancora un’anima desiderante, benché prigioniera di un corpo ormai defunto. Corpo che può essere quello di una giovinetta pompeiana, Arria Marcella, perita durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., ancora in grado di tentare un romantico giovanotto parigino che visita l’Italia intorno alla metà dell’Ottocento: il sogno d’amore sembra realizzarsi per magia, quando interviene il tipico rompiscatole. Nella fattispecie, il padre cristiano della bella pagana, che appare nel bel mezzo di una fatidica notte benedetta da Venere, per svelare al giovane Octavien che sua figlia è nientemeno che un’empusa, un demone mitologico che si nutre del sangue delle sue vittime per alimentare una giovinezza perduta. Questa figura dell’immaginario, fra l’altro, è molto vicina a quella di Melisandre, la Dama Rossa nel Trono di spade, perché anche il folklore nordico, a cui si ispira George Martin, annovera simili tipi di demoni.
Proprio “La morta innamorata” si intitola un altro racconto di Gautier, dove la splendida cortigiana Clarimonde, fulminata da un’orgia di otto giorni e otto notti, perseguita con il suo fascino lussurioso un giovane prete.
Ed è sempre Gautier, negli ultimi anni di vita, a tornare sul suo tema prediletto per risolverlo infine in un’aura di misticismo illuminato dalle teorie di Swedenborg, che intrecciano il mito dell’Androgino platonico alle dottrine dei misteri ellenici, le religioni orientali alla fede nelle gerarchie angeliche: delicata e fedele oltre la morte a un amore claustrale, mai consumato, Spirite riuscirà a fare di un superficiale dandy, viziato da piaceri e rituali mondani, il più spirituale degli spasimanti, pronto a sacrificare per lei la sua esistenza in vista dei beni dell’Aldilà. Spirite è la ‘vampira’ più tenera e devota della letteratura occidentale, nonché la più caparbia. Un ribaltamento in positivo di Attrazione fatale, una strana donna che riesce a conquistare l’uomo amato solo mettendo in pratica il vecchio motto di Sting: “If you love somebody, set them free”.