Diversità dell’Autonomia operaia genovese

Roberto Demontis e Giorgio Moroni (a cura di), Gli autonomi – Vol. VII Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), Derive Approdi, pp. 336, euro 20,00 stampa

La memoria è essenziale come l’acqua, essendo una risorsa strategica nella lotta per il potere. Non si possono combattere guerre senza avere il controllo sulla memoria e sul suo intrinseco opposto, l’oblio (che sebbene visto come assenza di qualcosa, è in realtà una vera risorsa)”. Viet Thanh Nguyen

Questo libro è un paradosso perché da una parte dichiara e riconosce che l’esperienza dell’Autonomia operaia organizzata a Genova è stata politicamente minoritaria nella sua capacità di incidere nella città e nella Regione ma dall’altra questo è solo il primo di due volumi su quella stagione che con modalità diverse arriva fino al G8 del 2001, ai tre giorni delle oceaniche manifestazioni del movimento “no global”, scandite sulla prima grande manifestazione di migranti, la morte di Carlo Giuliani, le torture di Bolzaneto.

Molti di quei militanti hanno voluto dire la propria con entusiasmo rivendicando il proprio essere stati protagonisti in un racconto corale. L’orgoglio e la gioia di aver fatto parte di quel movimento vengono, infatti, trasmessi al lettore che – se appartiene alle stesse generazioni – riconosce nelle storie di quei molti la propria storia politica e personale, la ricchezza di possibilità, il cadere come stracci delle vecchie vesti e il senso profondo di poter prendere in mano il proprio destino e la propria sorte che non poteva che essere collettiva. Lo dice bene Nico Gallo – una delle voci, ben 18, che hanno scritto il volume in un suo post su facebook: “La mia è una storia semplice, fatta di piccole casualità, di amicizie, come per ognuno di noi; eppure quegli anni cambiarono tutto. Succede in ogni epoca e per ogni generazione, è vero. In questo caso accadde che nelle vite di ognuno sia palpitata, per un breve periodo, la Storia.” Lo ribadiscono fra gli altri Giandino Cuccato e Guglielmo Mazzia quando scrivono: “Quella che vogliamo raccontare non è la storia di una sconfitta ma quella di un colpo di fulmine collettivo (…)” o Elena Guaraglia che intitola il suo testo “Comunque bella”.

Eppure, come detto, la storia dell’Autonomia organizzata di Genova e della Liguria non è omogenea nelle sue componenti e politicamente minoritaria in quella città e in quella Regione che faceva parte del triangolo industriale. Perché?

Emilio Quadrelli, intervistato da Roberto De Montis e Giorgio Moroni, lo dice chiaro: “Lo sguardo di chi si oppone al PCI, almeno nella sua stragrande maggioranza, è rivolto al passato piuttosto che al futuro”. Quadrelli prende ad esempio due eventi epocali degli anni ’60. Piazza Statuto nel 1962 a Torino e i disordini (quasi una vera e propria insurrezione) a Genova del 30 giugno del 1960  che faranno saltare il programmato congresso nazionale del M.S.I. e cadere il governo Tambroni.
Se i disordini di piazza Statuto con i suoi giovani operai immigrati venuti dal Sud (e considerati provocatori dal PCI) è il vero e proprio atto fondativo di una nuova soggettività operaia nata da una nuova composizione di classe, i disordini di Genova con le sue famose e indimenticabili magliette a strisce indossate dai ragazzi rivoltosi si riallacciano alla Resistenza e all’antifascismo militante.
Eventi potenti e dirimenti ma che sono come un Giano bifronte: uno rivolto al futuro e all’anticapitalismo radicale, uno rivolto al passato e all’antifascismo radicale.
Secondo Quadrelli quello che è mancato alla sinistra antagonista e all’Autonomia operaia genovese è stata la capacità di cogliere realmente le novità che erano presenti a Torino e meno evidenti a Genova.
Dall’evento genovese è stato invece raccolto (in modo quasi maniacale secondo le parole di Quadrelli) l’antifascismo e l’idea della Resistenza tradita che diverrà, per grande parte della sinistra extraparlamentare, il principale punto di attrito con il PCI e i suoi iscritti che – nel momento in cui manca ogni riflessione teorica e politica sulla funzione della socialdemocrazia e del riformismo e si pensa che il fascismo sia la sola via del Capitale – continuano ad essere visti essenzialmente come compagni che sbagliano. Così anche l’attenzione è rivolta esclusivamente alla classe operaia delle grandi aziende di Stato senza rendersi conto che la sua centralità sta già volgendosi al termine e che la ristrutturazione capitalistica sta vincendo. Le grandi fabbriche di Genova verranno progressivamente e letteralmente svuotate e la città stessa perderà 50.000 abitanti.
Questo aspetto è un sottofondo comune a molti interventi presenti nel libro, mentre sempre Quadrelli scrive che non si è riusciti a vedere oltre questa classe operaia aristocratica – legata saldamente al PCI e al Sindacato, sicuramente antifascista ma non altrettanto anticapitalistica – e rivolgersi “all’indotto, all’edilizia, al facchinaggio o al mondo dei giovani apprendisti” dove, conclude, “c’era molta «Piazza Statuto».
Meno netto nel giudizio sulla composizione della piazza del 30 giugno 1960, l’intervento di Flavio Schenone che si sofferma lungamente sulle particolarità e il lungo declino della classe operaia genovese e del suo rapporto con il Pci e il sindacato.
Ma sono molti gli interventi del libro in cui aleggia questo rapporto impossibile con la classe operaia delle grandi fabbriche statali e le sue rappresentanze, un rapporto che mancando una lettura puntuale di ciò che stava succedendo nella composizione di classe e nella soggettività, porterà molte componenti alla sinistra del PCI al cielo della politica e dell’ideologia declinato in vari modi a partire dal gruppo XXII Ottobre, passando per il servizio d’ordine di Lotta Continua fino alle Brigate Rosse Gli imprendibili (come titola il libro di Stefano Casazza dedicato alla colonna genovese delle Brigate Rosse sempre edito da Derive Approdi) che in realtà aveva ben pochi quadri fra gli operai.
Ne parla anche Giorgio Moroni, nella sua intervista che ricostruisce puntualmente tutta la storia dell’Autonomia operaia dal 1974 al 1979, all’indomani delle inchieste sul 7 aprile e della repressione che riguarderà in modo massiccio anche Genova.

Dopo tutto questo insistere sulla grandezza di Genova, il suo antifascismo radicale che è stato anche il suo limite, e il suo “guardare indietro”, mi chiedo se questo libro non soffra della stessa malattia, del ricordo eroico di quando i re eravamo noi e rischi di presentarsi come un testo di “rivendicazioni postume o di continuità nostalgica”.

Sandro Mezzadra (autonomo giovanissimo a Genova), nelle conclusioni al libro e che vuol essere una introduzione al secondo volume, individua in tre concetti – necessariamente rivisti – il lascito di quella stagione e scansa così il pericolo del reducismo:

Composizione di classe, che rimanda a una lettura dinamica dei rapporti di classe oggi attraversata dalla differenza di “razza” e “genere”.

Autonomia (con la a minuscola): quel fondamentale riconoscimento della libertà di sottrarsi allo sfruttamento da parte della forza lavoro catturata dal capitale.

Contropotere: forse il concetto più complesso perché non può essere pensato solo come offensivo ma deve “combinare negoziazione, resistenza e attacco nella prospettiva di favorire convergenza fra figure eterogenee e di praticare immediatamente la trasformazione sociale”.

Nel libro è contenuta anche una preziosa bibliografia sui movimenti genovesi e sulle caratteristiche territoriali proprie dell’Autonomia genovese che difficilmente possono essere paragonate ad altre esperienze organizzate.