In questo testo, apparso per la prima volta in “Distruggere Alphaville” (L’Ancora del Mediterraneo, 2005, pp. 7-20) e ripubblicato nell’antologia “Le strade di Alphaville. Conflitto, immaginario e stili nella paraletteratura” (Odoya, 2022, pag 41-53), Valerio Evangelisti utilizza la città del film di Godard come metafora. A Alphaville i sentimenti – in primis l’amore e la tenerezza – sono illegali e puniti con la morte. La scheda del volume, curato da Alberto Sebastiani per Odoya Edizioni, che ringraziamo per la pubblicazione, la trovate qui.
Periferia di Alphaville. 23:15, ora oceanica
«Erano le 23:15, ora oceanica, quando Natasha e io uscimmo da Alphaville attraverso i viali periferici».
– Dal film Agente Lemmy Caution: missione Alphaville di Jean-Luc Godard, come tutte le successive citazioni in corsivo
In apparenza la battaglia è vinta. La narrativa di genere – quella che, per semplificarne le diverse anime, definisco “paraletteratura”, strappando la definizione insultante dalle mani di chi la avversa – in Italia ha vinto e stravinto. Domina largamente il mercato, soprattutto in una sua componente, quella poliziesca e noir. Vede, sull’onda del consenso di pubblico, issati sul piedistallo della gloria (attenzione dei media, premi importanti, collezioni prestigiose) i suoi autori, anzitutto Andrea Camilleri, mentre nelle enciclopedie letterarie entra per la prima volta la voce “Lucarelli, Carlo”. Nessun critico sensato discrimina più un romanzo solo perché tratta di delitti o di astronavi, di gangster o di pirati. L’ingresso di Dumas al pantheon ha sancito a livello mondiale un trionfo ormai acquisito. Esistono sacche di resistenza, ma sono patetiche. Chi le anima è di solito di età avanzata e continua a chiedersi, e a chiedere in giro, dove mai siano finiti i Pasolini, i Calvino, i Gadda (la risposta è elementare e di natura anagrafica, però darsela significherebbe riconoscere la brevità del proprio futuro). Altri, molto più giovani, si interrogano sul perché la ricerca linguistica e stilistica sia venuta meno, facendo riemergere trame e intrecci come elementi portanti della narrazione. Costoro, chiaramente, non leggono i quotidiani, non conoscono internet e non guardano i telegiornali.
Altrimenti saprebbero che le frontiere culturali non sono più quelle di un tempo. La ricerca sulla lingua ebbe il suo momento, legato al sorgere di un’identità nazionale, o addirittura locale. Oggi la priorità è comunicare al di là di confini sempre più aleatori. Logico che ciò che si comunica – in termini di storie, idee, vicende – abbia la meglio sull’invenzione linguistica intraducibile. Ma ciò non dovrebbe costituire un grosso problema. Era già realtà quando, nel XIX secolo e agli inizi del XX, in Europa circolavano, tradotti più o meno bene, i romanzi di Dickens, Balzac, Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Zola eccetera. Quanti, ignari di russo, saprebbero formulare un giudizio critico compiuto sullo stile letterario di Delitto e castigo? Quel che resta nella memoria è l’intreccio, in cui l’ampiezza dei temi si fonde con una suspense che lascia con il fiato in gola.
Oggi il mondo è una grande Europa, ancora incompleta. Sia dunque benvenuta qualsiasi narrazione capace di passare le frontiere, tipo quella proposta dalla letteratura di genere.
Insomma, la paraletteratura ha trionfato. È adesso che bisogna iniziare a preoccuparsi.
Gli abitanti di Alphaville non sono normali. Sono il prodotto di un mutamento.
Credo che alcune voci critiche non abbiano torto a denunciare la scalata del thriller nelle classifiche dei libri più venduti e le strategie editoriali che alimentano il fenomeno. Non c’è dubbio, ai miei occhi, che ciò si inquadri in un generale moto restaurativo, destinato a diffondere il non-pensiero dove esistevano complessità e profondità.
Se non posso associarmi alla denuncia, è perché la narrativa di genere è infinitamente più ricca dei titoli che svettano nelle classifiche attuali. Insomma, la fantascienza ci ha dato Dick (ormai un punto di riferimento, a proposito e a sproposito), Ballard, Vonnegut, i meno celebrati ma non per questo meno importanti Sturgeon, Leiber, Sheckley. Dal genere noir sono venuti Hammett, Chandler, Manchette, Ellroy, Izzo, Leonard. Persino il vecchio poliziesco d’indagine può vantare un Simenon, un Malet, un Camilleri, una Vargas. Dal negletto horror sono emersi Lovecraft e King. Chi potrebbe asserire che questi nomi (e tanti altri che ho nella penna, penso a Khadra, Taibo II, Markaris eccetera) abbiano involgarito, e non invece arricchito, la scena letteraria contemporanea?
Certo, quelli citati finora sono nomi stranieri. Il dramma pare nascere quando si passa ai nomi italiani. Allora sembra che scatti l’antico veto che da Croce passò a Prezzolini e si è in seguito perpetuato. L’Italia non è terreno adatto a un tipo di letteratura che punta agli eccessi di immaginazione e alle speculazioni estreme. Quella, se proposta nello Stivale, è puro fenomeno imitativo dettato dal mercato. Alle nostre latitudini bisognerebbe rifiutare i modelli eteroimposti e lavorare invece su lingua e concetti nostrani, in qualche caso addirittura regionali o di paese.
Non è certo questa, sia chiaro, la posizione di avversari del thriller come Carla Benedetti o Antonio Moresco (il quale, da par suo, compie un’operazione opposta a quella descritta: cerca di iniettare nella narrativa “alta” l’afflato universale, addirittura cosmico, della migliore narrativa di genere). Rischia di diventarlo se la critica, giustissima, ai meccanismi del mercato coinvolge singoli autori vilipesi (forse) oltre il dovuto oppure esaltati (forse) oltre il comprensibile. È proprio al mercato e alle sue distorsioni che andrebbe rivolta l’attenzione primaria. Poi, se un ex attore di varietà scala le classifiche con thriller scontati, buoni per palati grossolani, se chi firma un mediocre romanzo familiare borghese fa altrettanto, se una ragazzina spigliata si afferma descrivendo le proprie esperienze sessuali in uno stile che oscilla tra Luigi Capuana e Pierre Louys, e se, invece, il successo non arride a uno scrittore che partorisce un romanzo ai limiti della leggibilità e insulta e scalpita cercando un alibi nell’invenzione linguistica proposta quale dogma, che male c’è? Fin dalle origini la letteratura ha avuto diverse tipologie, sia qualitative che tematiche, e ciascuna di esse ha conosciuto il proprio sviluppo, senza che una pretendesse di elidere le altre. Semmai il male sta nell’insultare e nello scalpitare.
Che senso ha litigare in nome dello spazio occupato negli scaffali delle librerie? Personalmente, da narratore “di genere”, non mi sono mai sentito minacciato dal successo di Alessandro Baricco, che certo segue canoni completamente diversi dai miei. E leggo con passione e curiosità, privi di spirito competitivo, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa, Michele Mari, Antonio Moresco, più infiniti altri. Hanno loro scopi e loro mete stilistiche. Perché mai li dovrei odiare?
Semmai mi preoccupa l’incapacità della letteratura di genere a confrontarsi, serenamente e con spirito amichevole, con simili personaggi. Ma questo è un problema interno a quel tipo di narrativa e prelude alla triste necessità della sua distruzione dal di dentro.
«Aiutami. Sono parole che non conosco. Non me le hanno mai insegnate».
«Impossibile, principessa. Devi farcela da sola, e allora sarai salva. Se non ce la farai sarai perduta, come i morti di Alphaville».
Prima di proseguire, mi permetto una sintetica digressione. La letteratura – o anche la narrativa di stampo artigianale – è essenzialmente un mezzo di comunicazione. Attraverso un linguaggio idoneo allo scopo, l’autore cerca di trasmettere ad altri storie, stati d’animo, concetti, visioni, contenuti che per lui sono pregnanti. Senza lettore, non ci sarebbe scrittore. Qualche volta, i contenuti possono essere individuati nel linguaggio stesso, ma ciò è raro (anche se ovviamente è lecito), perché limita la possibilità di comunicare e restringe il campo dei ricettori a chi intenda quel gergo; quando la vocazione naturale di un medium (come appunto la letteratura) è farsi universale.
Per dirla in parole più semplici, se Zola avesse scritto in dialetto provenzale, e Dickens in cockney, oggi difficilmente li conosceremmo in Italia. Dal lato dello scrittore, le cose cambiano. Come notò a suo tempo Lucien Goldmann, egli si muove tra diversi “sistemi”: uno è quello dell’insieme della letteratura, a cui deve giocoforza rapportarsi; un altro è quello della società in cui vive. A quest’ultimo appartengono, aggiungo io, anche i meccanismi mercantili attraverso i quali la sua produzione può raggiungere i lettori. Meccanismi differenti con il variare dei periodi storici. I problemi di mercato che aveva Dante Alighieri erano diversi da quelli di Balzac (gravissimi, come sappiamo), a loro volta differenti da quelli di un autore contemporaneo o di un giovane esordiente.
È nel dibattersi tra i diversi sistemi che lo attraversano che lo scrittore definirà se stesso. In rapporto alla letteratura precedente (o magari futura), in rapporto al contesto storico in cui agisce, in rapporto agli obblighi di mercato che deve necessariamente attraversare per giungere a trasmettere ciò che desidera arrivi ad altri. Il “successo” intimo e personale gli arriderà se, traversati tutti questi ostacoli, saprà portare al destinatario qualcosa di innovativo, in relazione ai sistemi che intendono condizionarlo. Il “successo” sociale (possibile anche per l’altra via) sarà più rapido se lo scrittore si adeguerà ai sistemi che lo trascinano: tramite l’imitazione di modelli pregressi, la sintonia della creazione con le domande della società, la navigazione esperta attraverso i canali mercantili.
Si noti a quante scosse è comunque sottoposto il testo, attraverso i percorsi che ho indicato. All’inizio è qualcosa di unico e, in certo modo, di inconoscibile. Tutti gli approcci psicanalitici o psicologici alla critica letteraria sono falliti miseramente (Barthes ne ha indicato il perché con una frase fulminante: «Colui che parla – nel racconto – non è co- lui che scrive – nella vita – e colui che scrive non è colui che è»). Per l’analista è già difficile esplorare, a furia di sedute, la mente del paziente che ha nello studio. Figurarsi quando si tratta di uno scrittore con cui non si ha nessun contatto e magari è deceduto da qualche secolo. Lo studioso deve fidarsi delle sue confessioni scritte o, peggio, considerare tali le sue opere. Senza badare al fatto che queste, del tutto o in parte, vivono di finzione (mi rifaccio ancora a Goldmann).
Da parte sua, nemmeno lo scrittore ha una padronanza completa della propria psiche. Se la parte più remota viene detta “subconscio”, un motivo ci sarà. La posizione dell’autore, o almeno dell’autore consapevole del proprio lavoro, somiglia a quella degli antichi alchimisti. Il creare è anche ricerca interiore. Plasmare la materia grezza (sia la storia che la parola), raffinarla gradualmente, è operazione che plasma l’oggetto ma anche l’operatore. Se l’alchimista, nel passare dalla nigredo all’albedo, alla citrinitas e infine alla rubedo perfeziona la materia e al tempo stesso “si fa Dio”, cioè si avvicina via via alla capacità creativa della divinità (un’imitazione intesa non come bestemmia, quale nella cattiva interpretazione del Frankenstein, bensì come una sorta di preghiera), così lo scrittore, nel concepire intrecci e nel renderli intelligibili (dunque trasmissibili), si approssima per gradi all’inconoscibile; che però, nella società odierna, è la parte ignota di se stesso e non un demiurgo esterno.
Oserei affermare che, se può esistere un metro assoluto di qualità letteraria (e io ne dubito), esso risiede nella misura in cui lo scrittore fa trapelare, senza mai renderla esplicita (essendo in gran parte ignota a lui stesso), questa sua operazione. Il che, per fare nomi a caso, accosta Dostoevskij a Philip K. Dick, Lovecraft a T.E. Lawrence. Oppure, con riferimento ai risultati concreti dell’opera alchemica, nei casi in cui lo scrittore – che a questo punto può non avere un nome – disvela con sincerità l’interazione intenzionale di ciò che produce con uno dei sistemi in cui è inserito: in questo caso, quello sociale. E allora potremo accostare senza ritrosie i Wu Ming a Balzac, Jack London a Moresco o a Genna.
Restano fuori dai giudizi qualitativi le semplici gabbie linguistiche che rinserrano il nulla, le narrazioni a formula fissa che si rincorrono identiche, i racconti incomunicabili eccetera. Guai all’alchimista che si fa “soffiatore” (semplice manipolatore di prassi notorie), guai a quello che prescinde da chi potrà trarre beneficio dalle sue invenzioni.
Insomma, la fase dell’opera al rosso ha due facce: una soggettiva, inerente alla creazione, e l’altra oggettiva, inerente al creato. Strumento analitico utile, ai fini di una valutazione qualitativa, è solo quello dell’onesta dichiarazione dei propositi. Fermo restando che questa non conduce automaticamente al quid, destinato a restare ignoto, essendo ancora ignoti i meccanismi della psiche e le regole dell’universo.
Un’ottima divulgazione di tutto ciò si trova in uno scrittore molto popolare: Dante Alighieri. Letto in mille forme, ma quasi mai da chi, a conoscenza delle regole alchemiche, potesse distillare l’oggetto primario della Commedia: la creazione, il “farsi Dio”, l’intervenire alla luce delle conoscenze accumulate sul proprio presente – per decifrarlo e, all’occorrenza, cambiarlo.
Gli abitanti di Alphaville non morirono tutti, ma tutti erano rimasti colpiti.
Si dirà: ma che c’entra tutto ciò con la narrativa di genere, adagiata per sua stessa natura sulla piattezza e la ripetitività? Viene da rispondere: e che c’entra tutto questo con l’odierna letteratura mid-cult spacciata per “alta”, in cui non uno dei problemi posti dalla storia viene affrontato, quanto meno in termini accettabili? Salgari e Dumas, in tutta la loro modestia, trattavano l’uno di colonialismo e l’altro di democrazia. Si collegavano a forme addirittura ancestrali di affabulazione, fino a toccare, nei momenti più felici, il livello onirico e, al di là di quello, addirittura la sfera archetipica. Operavano con sincerità di intenti. Se la loro materia restava grezza, non c’era però dubbio che, nel manipolarla onestamente, si “facessero Dio” – tanto che hanno influito potentemente sulla psiche di intere generazioni.
Può dirsi lo stesso della narrativa mid-cult, dell’odierno “romanzo borghese”, delle mille varietà dell’effimero presuntuoso che ci circonda? Direi di no. Se ai suoi tempi un Dumas poteva dialogare con un Balzac, oggi con chi può dialogare uno scrittore di genere? I nomi, in Italia, non superano le dita di due mani. All’estero talora va meglio: negli Stati Uniti, in America Latina, per esempio. Talaltra va peggio. Mentre Jean-Patrick Manchette, in Francia, sudava su ogni singola parola per distillare purezza stilistica e linearità narrativa, al servizio di trame capaci di aggredire i massimi sistemi, attorno a lui regnavano il baccano dei nouveaux philosophes dal pensiero elementare e catodico, il rombo dei tromboni, dei cantori del nulla, à la Philippe Sollers. Gli equivalenti d’oltralpe di chi, da noi, vive di stile, snocciola nozioni e non dice niente.
Con questo non intendo asserire una superiorità automatica dello scrittore “di genere” rispetto ai colleghi più nobili. Non è vero e lo si vedrà tra poco. Il nocciolo del discorso è semplificabile in un esempio. Se un Pasolini (per il quale nutro una simpatia moderata, lo ammetto) riesce a dominare la scena ancora oggi, è perché la trasparenza delle sue intenzioni era palese, fino a rasentare la purezza, e perché si abbandonò ai “sistemi” che lo avvolgevano: l’interazione con la tradizione pregressa, quella con il contesto sociale, l’analisi di se stesso.
Altri scrittori del medesimo periodo storico sono stati dimenticati dopo averlo dominato, come Alberto Moravia. Il fatto è che scelsero di agire in un sistema o nell’altro, però non in tutti. Non riuscirono a “farsi Dio”.
«Credi che siano morti tutti? No, non ancora. Può darsi anche che guariscano, e che Alphaville diventi una città felice come Firenze, come Angoulême City, come Tokyorama».
Se il grosso problema, per lo scrittore senza etichette, è la ripetitività, per quello di genere sono le gabbie. Il successo persino eccessivo arriso al noir, il potere contaminante della fantascienza (che può anche agonizzare, ma solo dopo avere riversato sulla società immagini, idee e un intero vocabolario utile a descrivere i più recenti sviluppi della società stessa), l’estendersi dell’horror nelle più inattese diramazioni mediatiche eccetera: tutto ciò resta vitale finché resiste alla minaccia incombente della cristallizzazione in formule prive di anima e di tasso inventivo.
Personalmente, comincio a non poterne più dell’investigatore privato cinico e disilluso, del poliziotto coraggioso che si scontra con l’abulia dei superiori, dell’agente tormentato da problemi intestinali, del serial killer tanto idiota quanto capace di raffinate nequizie, dell’astronave carica di rutilanti gerarchie in viaggio verso ultime frontiere, di giudici zelanti che riaprono casi dimenticati, di avvocati anticonformisti in crisi esistenziale eccetera. Ognuno di questi topoi ha alle spalle alberi genealogici illustri. Ogni loro riproposizione negli stessi termini accorcia, magari inconsapevolmente, la distanza che separa L’esorcista (The Exorcist, 1973) da L’esorciccio (1975), il laboratorio dell’alchimista dalla cucina di casa. Gli esiti sono garantiti (come Eco ha dimostrato analizzando la ripetitività in Rex Stout), ma logorano progressivamente il genere, riconducono l’opera “al nero”.
Quella che poteva essere una sfida, diventa acquiescenza e consolazione. Inutile criticare, da una posizione tanto fragile, le banalità del romanzo borghese. Inutile stigmatizzare il vuoto a partire da un vuoto ancora peggiore. Sarà magari vero che la narrativa noir (e qui comprendo sotto l’etichetta l’intera letteratura di genere, “nera” in varie forme) ha le potenzialità per descrivere meglio di ogni altra la società odierna. Però non basta prendere atto di questo e adagiarsi sulla rassicurante constatazione di essere nel giusto. La cognizione deve farsi coscienza e, sul piano dell’atto, tradursi in militanza.
Basta con i percorsi obbligati e i luoghi comuni. Basta con l’astronauta coraggioso, il commissario umano, il giudice senza macchia, l’assassinio seriale dalle efferatezze allucinanti e dalla psicologia confusa, il mostro vampiresco che percorre la storia identico a se stesso. Tutto ciò conduce a quella che alcuni hanno chiamato, parzialmente a ragione “voga thrilleristica”. No. Il genere è sostanza esplosiva a cui manca l’innesco. Autori come Ballard, Ellroy, Vonnegut, Manchette, Raymond e quasi tutti gli altri che ho citato più sopra lo hanno trovato e attivato. Usciti dagli schemi e dai percorsi obbligati, si sono visti immersi nella letteratura senza classificazioni, non più emarginabili, non più viventi da emarginati. Se poi qualche accademico continua a sollevare il sopracciglio, diventa problema suo, non loro. Il parruccone si troverà a sua volta in un ghetto, fino a riuscire a berciare solo sulle pagine screditate e avvilenti de Il Domenicale.
Per quanto paradossale possa suonare, la vitalità della narrativa di genere è direttamente proporzionale alla sua vocazione al suicidio. Il feuilleton di basso livello (non quello alla Dumas, bensì quello alla Paul Féval, alla Xavier de Montépin, alla Carolina Invernizio, alla Émile Richebourg) contribuì grandemente a democratizzare la scena letteraria, inducendo alla lettura strati sociali che ne parevano esclusi per censo. Poi perì o, quanto meno, seppe cambiare pelle. Tramiti ne furono il gigantesco Fantômas, riassunto delle paure di un’epoca, e l’ironico Arsène Lupin, che a colpi di umorismo sottile seppelliva i progenitori.
Nuovi filoni sono emersi, ma anch’essi, negli esponenti di punta, votati all’autodistruzione. Prendiamo l’Italia quale osservatorio, in riferimento non agli scrittori italiani, bensì a quelli tradotti. Collane popolari, come Il Giallo Mondadori o Urania, sono state (e in misura ridotta sono ancora) fattore importante di alfabetizzazione in un paese in cui il tessuto delle librerie è fitto solo in metà dello Stivale, mentre nell’altra metà prevalgono ancora la cartolibreria e l’edicola. Oggi, autori che fecero in quelle sedi la loro prima apparizione hanno raffinato i loro mezzi espressivi fino a diventare irriconoscibili, e nessuno oserebbe collocarli di fianco a Edgar Wallace, a Mickey Spillane o a Murray Leinster.
Come avvenne per il nostro cinema peplum, interi generi letterari di successo hanno lasciato la scena e occupano oggi solo la memoria. Sono spariti il western, il romanzo di pirati, la narrativa di guerra alla Sven Hassel. Sono apparsi McCormack, Björn (Hassel non è stato sostituito perché, dopo Joseph Heller, la narrativa militarista può interessare solo i poveri di spirito). È oggettivamente difficile rimpiangere, di fronte a costoro (che nessuno definirebbe specialisti in western o in storie piratesche), Louis L’Amour, Zane Grey o Luigi Motta, per quanto rispetto retrospettivo dobbiamo a simili autori.
Aveva ragione Manchette ad asserire che il noir era la migliore chiave interpretativa di una società a sua volta anneritasi, in cui crimine e potere si erano fusi. Però di questo assunto non fece mai un assioma e, appena si accorse che sciami di imitatori rischiavano di ridurre a formula sterile le sue intuizioni, li scomunicò uno dopo l’altro – salvo poche eccezioni – con quelle parole capaci di scorticare di cui solo lui possedeva il segreto.
Il noir – dopo avere assassinato il “poliziesco” puro – resta grande in quanto si ricollega direttamente alla tragedia. Ma, in questa accezione, non richiede né investigatori né delitti. Romanzi neri, anzi, nerissimi, sono quasi tutti quelli di Zola, compresi alcuni che non appaiono tali (tipo La conquista di Plassans, che descrive l’instaurarsi di un delirio erotico-religioso in una cittadina di provincia; oppure Il paradiso delle signore, con la vicenda del vecchio ombrellaio rovinato dall’ascesa dei grandi magazzini).
Il noir può continuare a proporsi quale oggetto letterario dotato di centralità se capirà che la lotta contro il “giallo” è stravinta, ed è inutile continuarla sullo stesso terreno formale. Le migliori opere di Paco Ignacio e di James Ellroy sono una biografia di Ernesto Che Guevara e un’anti-storia degli Stati Uniti.
Quanto alla fantascienza, la sua grande stagione Cinquanta-Settanta non ha avuto seguito. Il cyberpunk ne è stata l’ultima propaggine. Però non si può dire che la narrativa fantascientifica, il genere tra tutti più vitale e fecondo, più letterariamente propositivo, sia morto di consunzione. Al contrario: ha deciso con lucidità di compenetrare tutto ciò che lo attorniava, dalla letteratura “alta” a ogni sfera della comunicazione. La fantascienza scritta si è volutamente suicidata (le vendite di Urania sono passate da 40.000 copie a un decimo appena) per contaminare della propria sostanza l’ambiente circostante e trasmutarlo. Ha raggiunto l’“opera al rosso”. Si è fatta quintessenza o, per usare un termine più comune, pietra filosofale. Il genere più nobile ha avuto il più nobile dei destini.
Un esempio da seguire. Alphaville va smantellata, in vista però di una fusione, non di un’evaporazione.
«Ho paura della morte. Ma per un modesto agente segreto come me è un elemento normale, come il whisky. E io ho bevuto whisky per tutta la vita».
Insomma, il destino di Alphaville, se vuole perpetuarsi, è esplodere. Autodistruggersi, in vista non della morte, bensì di un’altra vita. La saggistica selvaggiamente assemblata che propongo persegue questo fine, articolato in tre fasi: comprendere la ricchezza del genere; violarla in molte forme; passare ad altro, pur senza rinnegare l’ambito d’origine.
Nel concreto, in queste pagine si troveranno, in successione: una disamina sommaria di alcuni esempi di romanzo popolare, tra fine Ottocento e inizi del Novecento; una serie di note di lettura, talora riguardanti la narrativa detta di genere, talaltra no, con sfrontate incursioni nell’attualità; alcuni raffronti tra la cronaca e la sua trasfigurazione letteraria.
Segue una prima parentesi di interventi disparati: a carattere storico (chi ha detto che uno scrittore non possa fare incursione in un campo diverso dal suo, specie se ha avuto una formazione non letteraria, ma attinente alle scienze sociali?) però con un’eccezione: la stroncatura – sadica, lo ammetto – di uno stroncatore. Poco avvezzo al “buonismo”, tendo a rendere la pariglia a chi mi tratta da imbecille.
Il settore successivo è il più scandaloso. Vi prendo apertamente le difese di un collega e amico, Cesare Battisti, ritenuto un “terrorista”, sottoposto a uno dei più feroci linciaggi mediatici che l’Italia repubblicana abbia mai conosciuto e infine costretto alla fuga e all’esilio. È un po’ un pretesto per parlare della giustizia sommaria che si praticò in Italia tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, per eliminare un movimento di opposizione talora armato, più spesso no. Confido che chi leggerà ciò che ho scritto su Battisti comincerà a nutrire dubbi sulla liceità della sua persecuzione (fosse innocente o meno) e sull’onestà dei media.
Si tratta di un’uscita dal tema di questo libro? Non credo. Abbiamo a che fare con uno scrittore di genere costretto dai poteri politici e giudiziari ad abbandonare la penna e a darsi alla latitanza. Mentre le star del noir all’italiana, che con Battisti avevano condiviso convegni e convivi, scelgono di tacere o, nel caso peggiore, di unirsi ai latrati del branco. Mi permetto di definire costoro vigliacchi. Però il problema è più complesso, e riguarda il fatto che il noir nostrano non è affatto nero. Semmai è rosa, tipo culetto di neonato.
Segue una brevissima sezione dedicata al cinema, con un paio di recensioni. Ammetto di essermi divertito a farle e che, se le propongo, è nella speranza di divertire il lettore, dopo la materia drammatica precedente.
Identico scopo ricreativo perseguono i due raccontini nei quali il più noto dei miei personaggi, l’inquisitore Eymerich, si confronta con i protagonisti del romanzo di Chuck Palahniuk Ninna nanna (Lullaby, 2002) e addirittura con Dan Brown, l’autore de Il codice Da Vinci (The Da Vinci Code, 2003). Attenzione, bisogna avere letto questi romanzi per dare un senso alla mia ironia.
L’ultimissima parte di Distruggere Alphaville è la più anomala. Tocca temi politico-economici e, a parte una lettura del “caso Berlusconi” diversa da quelle correnti (che, quando sono critiche, tendono alla criminalizzazione del personaggio senza minimamente sfiorare le tesi – ben più “criminali”, se vogliamo – di cui è portatore), si sofferma su un’interpretazione libertaria di alcuni contenuti del marxismo e del pensiero di Marx in particolare.
Questa è la parte forse più difficile da giustificare, tuttavia non sta per caso in questo volume. A più riprese, alcuni quotidiani e settimanali di destra, ma non solo, mi hanno elencato tra i “comunisti” che, infiltrati nelle case editrici di proprietà di Berlusconi, si fanno foraggiare da quest’ultimo o, in alternativa, lo foraggiano. Non perdo tempo a cercare di spiegare che, in contesto capitalista, volenti o nolenti si finisce per interagire con un padrone, quali consumatori o produttori; che il mercato editoriale librario ha proprie specificità non riducibili allo scambio di interessi, per cui né Mondadori né Einaudi eccetera sono Berlusconi e basta; che, comunque, io non vedo Berlusconi come troppo anomalo rispetto alle altre espressioni del capitale (come invece fanno i “riformisti” che aborro).
Mi interessa piuttosto precisare se, e in quale misura, io sia definibile come “comunista”; e lo faccio dichiarando di riconoscermi in una sinistra – magari confusionaria e volubile, non lo nego – che gli stalinisti, i “marxisti ortodossi”, i fascisti, i liberali, i socialdemocratici, avessero una briciola di potere, hanno sempre cercato di fare fuori. Fosse quella sinistra eretica fatta di anarchici, di autonomi, di situazionisti, di operaisti, di consiliaristi, di massimalisti, di socialrivoluzionari, di populisti eccetera. Indietro fino agli hebertisti, agli enragés Jacques Roux e ai “cospiratori per l’uguaglianza” della Rivoluzione Francese, vittime di Robespierre, del Direttorio o di Napoleone. Non è una semplice dichiarazione di identità “politica” (nulla è più lontano dal mio sentire della “politica” istituzionale), ma piuttosto l’esplicitazione del filtro attraverso il quale tutti i miei interventi, inclusi quelli letterari qui riuniti, andrebbero travasati per capirli a fondo. Poi sono ben consapevole che la mia Weltanschauung è estremamente minoritaria, e così, come è inevitabile, lo è la mia chiave di lettura di testi ed eventi. Sono però tipo che non disdegna il minoritarismo, e persino la solitudine. Non ambisco a fare proseliti. Tengo solamente a dichiarare con piena franchezza ciò che sottende gli strumenti analitici che impiego, in materia letteraria e altrove.
Poi, del fatto che siano condivisi o meno, mi importa pochissimo. Mi basta non essere frainteso.
Questa è la terza e ultima puntata di un discorso iniziato, presso l’Ancora del mediterraneo, con Alla periferia di Alphaville, e proseguito con Sotto gli occhi di tutti. Ritorno ad Alphaville. Non ci sarà un quarto episodio. Alle 23:15, ora oceanica, ho lasciato Alphaville per sempre.