Cesare Viviani, Osare dire, Einaudi, pp. 116, euro 11,00 stampa, euro 6,99 eBook
Al mondo, ritornare come un satellite periodico nell’opera di un poeta ha un significato che potrebbe esser visto come delicata dedizione. Ma non si tratta soltanto di questo: occorre evitare sedentarietà per timore dell’intrico critico, e rivolgersi alla mera cronaca dell’esplicito e soprattutto dell’implicito. Sono limiti umani, si sa, perciò bisogna animarsi all’uscita di un nuovo libro, avvicinare l’antica disciplina senza rassegnazione né timore per malinconici errori.
Con un autore come Viviani, poi, l’accordo con la parola disciplina non può che essere minimo presupposto. E dunque osare dire, poiché soffrire dei limiti o albergare facili ottimismi in questa epoca di morte della letteratura (e di quante morti ancora dobbiamo trovarci sconcertati?) non giustifica silenzio né resa a una partita che si mostra invincibile. Se Viviani contende all’epoca la riconsegna della lingua, e lo fa da oltre quattro decenni, perché dovremmo giacere nel sonno della ragione?
Un tempo si servì di un idioma straniero: erano tempi di colpi quotidiani, di luci frenetiche e pericolose per le strade, era un metodo il suo che rimescolava anche con gesti armonici, ma ben lontano dai balbettamenti di alcuni disagiati scomposti. Scrittura perciò estranea, avventurosa quanto mai, veloce di composizione, così come lo stesso Cesare confessava in quegli anni ’70. Furori linguistici per niente astratti, certo, come poteva essere diverso in quello spazio d’esistenza che lo portò al crinale dell’Amore delle parti?
Ora possiamo dirlo, il secolo del sangue atomico stava finendo, e pochi riuscivano a tracciarne memoria poetica che non fosse difettosa. Per accorgersene basta sfogliare le antologie di quel periodo. Forse l’unica che tentò la sorte perigliosa del senso divulgativo, unito al baluginìo dell’esperimento, fu quella di Porta. L’eversione attuata da Viviani sfogliava tutti i nessi, e oggi dà l’impressione che nessuno come lui riuscì ad avvicinarsi al magma terreno messo in fieri dal divino. In questo non c’è lingua che tenga, nessun idioma terrestre. Sul valico c’era lui. Che pochi lo abbiano intuito non ha alcuna importanza. Il bersaglio era se stesso, prima di tutto, trapassato per ogni verso dal proprio linguaggio. A ogni stazione i conglomerati, spazzati dai venti e dalle maree umani, e diventando storia umana, assumevano forme tali da considerarsi dialogo prima, preghiera poi.
La parola è l’esperienza, azzera passato e futuro, considera il soggiorno tra nascita e morte una specie di baracca dove osservare predatori e vittime. Dunque l’occhio ha bisogno di sistemi simbolici differenti. E niente come la razza umana, come la specie dei poeti, sanno sconvolgere tradizione personale e tradizione storica. Viviani, decennio dopo decennio, ha scavato e scavato, ha descritto in modi diversi il groviglio ipocrita che abitiamo. La vulnerabilità dei “passanti” non è affar suo.
Non ha mancato di lanciare strali verso il fascismo degli ascoltatori, presenti ai reading o rintanati nel chiuso delle loro case. In un libro di saggi pubblicato anni fa scriveva: “La poesia vale solo per i credenti: per coloro che credono all’esistenza dell’invisibile. Per questo la più parte non ha relazioni con essa, perché non crede all’esistenza di Dio.” La sua poesia appare così in piena chiarezza: energia miracolosa, capace di trasmettere le conoscenze e le idiozie dell’attualità. Vocazione e invocazione? Osiamo pure dirlo: entrambe presenti in tutto il percorso poetico di Viviani, base irriducibile delle possibilità evocate e intrattenute. Canto d’origine tellurica e canto dell’anima che scrolla di dosso il fango dei porci.
Quando si dispiega la storia poetica di un autore di solito si mostrano le discontinuità, si esige una misura impaziente, quasi che altrimenti si dovessero perdere le tracce. Si pensa che l’ignoto sia scomodo, e non dia sazietà. Le cronologie valgono fintanto che si sa, come molti millantano di sapere, cosa si trova nelle stanze di un museo una volta pagato il biglietto. Prestare la propria visione a un poeta come Viviani rischia la pedanteria, riempie ciò che rifiuta di essere colmato. Ogni libro possibile – e nel caso i libri fanno parte di una lunga serie – è un mondo possibile. Non facciamo rappresaglie verso i generi.
Dopo la serie aforistica pubblicata nel 2014, quasi a compendio e come fedeltà mai sopita, la nuova raccolta, Osare dire. Architettura contro le attuali tenebre, una sorta di critica acustica da parte di una scrittura che ha del vertiginoso, tanto appare detta da limpida voce. Come se Viviani, rinnovando la percezione del dolore e avendo come traguardo anche l’invettiva in versi, richiamasse la materia grezza della lingua, quella che ritorna alla centralità assoluta della parola. L’evento inspiegabile non è più dentro la poesia, ma tutto all’esterno: nell’ignominia quotidiana, nei resti delle guerre, nelle raffiche stradali di mitra. E dunque il disprezzo va scritto con ben disposto lessico. Con rare e sicure aperture di respiro verso le opere d’arte naturali che in qualche pagina fecondano la fede nel divino. Mostrando questo moto proprio, si ha l’impressione che nell’autore valga l’impresa della fiducia. Alla poesia consente il valore conoscitivo di quanto ormai infesta i nostri giorni.
In Osare dire si combatte l’insonnia onde evitare distrazioni fatali, e il massimo dell’esigenza qui sembra essere il dissidio non mascherato, diretto al presente. C’è la nuda perseveranza della rigenerazione, lasciando indietro le scorie della lingua perché vi si avventino i soliti contabili. “Ho detto peste e corna di tutto, / ma ho anche tanto ammirato il mondo, / puntando al suo profondo, / e poi sconvolto…”
(Di Cesare Viviani Elio Grasso ha successivamente recensito anche La poesia è finita.)