Grant Morrison, Chris Burnham, Nameless – Senzanome, tr. Leonardo Rizzi, Saldapress, pp. 192, euro 29,90 stampa
Un filo oscuro, intricato e alle volte invisibile, sembra legare in vario modo da almeno cinquant’anni a questa parte il fumetto al controverso mondo dell’occultismo; non solo perché sono molte le opere che attingono a piene mani dall’enorme riserva tematica costituita dal sovrannaturale letterario, o perché non mancano personaggi ormai celeberrimi come il John Constantine di Hellblazer, i più datati Mandrake e Doctor Occult (creati rispettivamente nel 1934 e nel 1935), o ancora gli italiani Dylan Dog e Martin Mystere, tutti variamente coinvolti in faccende che rimandano al paranormale: a segnalare la profondità di un simile connubio (e delle sue implicazioni sugli sviluppi del medium) è in primo luogo il sincero interesse per certe conoscenze e pratiche esoteriche dimostrato da alcuni dei più importanti esponenti del panorama fumettistico internazionale, autori del calibro di Alejandro Jodorowsky, Alan Moore e Grant Morrison, tutti e tre maghi autoproclamati, che tra la scrittura di una sceneggiatura e l’altra si dilettano nella lettura delle carte e nello studio delle scienze arcane, occupazioni che hanno nel tempo permeato – non poteva essere altrimenti – la loro produzione artistica. Basti pensare, ad esempio, al peso che la passione di Jodorowsky per i tarocchi ha esercitato sulla serie fantascientifica L’Incal, o all’elaborata narrativizzazione di elementi cabalistici, gnostici e religioso-misterici in genere attuata da Morrison in quello che è certamente destinato a essere ricordato come uno dei suoi lavori più rappresentativi, vale a dire Nameless – Senzanome, pubblicato originariamente nel 2015 da Image Comics e portato, a due anni di distanza in Italia, e non senza una certa dose di coraggio, da Saldapress, che lo ripropone ora in un’edizione speciale di grande formato, ricca di interessanti contenuti aggiuntivi.
Andiamo subito al punto, senza tergiversare: quella di Morrison, in linea con gran parte della sua produzione, è un’opera complessa e stratificata, ai limiti di un’ermeticità gratuita (limite in diversi punti pericolosamente lambito, a dire il vero), in cui una moltitudine di piani di lettura diversi si sovrappongono, intrecciandosi tra loro per dare vita a quello che di primo acchito non potrà che apparire come un viaggio sfrenato (forse sarebbe più corretto parlare di trip) attraverso un incubo di cattivo gusto e privo di senso. Una fragile, precaria logica narrativa, tuttavia, c’è ed è possibile rintracciarla scavando a fondo nelle pieghe del testo, aiutati magari dal breve vademecum scritto dallo stesso Morrison e incluso da Saldapress, insieme ad alcune scansioni delle tavole originali, in appendice al volume, flebile lume (l’intestazione recita «Alcune chiavi per schiudere l’abisso di Nameless») contro l’oscurità di un’altrimenti inestricabile congerie di riferimenti che vanno da un fantastico di chiara ascendenza lovecraftiana a questioni di natura filosofico-esistenziale, dall’esotica e poco sfruttata mitologia precolombiana alla realtà biografica degli autori, in una scostante commistione di fantascienza e horror («un incrocio tra L’esorcista e Apollo 13» nell’esplicita definizione di uno dei personaggi) innestata senza apparente soluzione di continuità su di un nucleo narrativo che si direbbe mutuato da un mediocre disaster movie hollywoodiano.
Senzanome, enigmatico e sfrontato esperto di occultismo in grado di muoversi a piacimento nella dimensione onirica, viene assoldato da alcuni eccentrici miliardari per guidare una squadra di dodici apostoli/astronauti nella più banale delle missioni: tentare di salvare il mondo dalla collisione con un gigantesco asteroide indicato con il per nulla rassicurante nome dell’oltretomba maya, «Xibalba», frammento di un improbabile pianeta scomparso del sistema solare, la cui distruzione avrebbe posto fine sessantacinque milioni di anni fa (stessa datazione dell’estinzione dei dinosauri, per intenderci) a un conflitto cosmico tra i suoi abitanti e un’antica razza di divinità demoniache. È proprio la malvagità che impregna l’oggetto celeste – sulla cui superficie è inciso il simbolo mistico che lo identifica come «Porta dell’antiuniverso» – a rappresentare, tuttavia, il maggior pericolo di un’ascensione nello spazio che rapidamente si capovolge in una vera e propria catabasi, una discesa agli inferi e nella profondità della psiche umana che non prevede ritorno.
Questa situazione di partenza, piuttosto convenzionale nel suo sviluppo, come si è visto, viene ben presto fatta deflagrare in un oggetto narrativo abnorme e difficile da penetrare, in cui gli assi spaziali e temporali si confondono e, come il protagonista ci ricorda di continuo, «niente è reale». Da questo punto di vista il concetto di occulto cui Morrison fa riferimento appare molto distante da quello, taumaturgico, delineato negli anni da Jodorowsky e Moore, per i quali la magia si presenta come qualcosa di tremendamente serio e concreto, la forma più profonda della conoscenza umana. «Tutto ciò che ti serve per la pratica della magia è concentrazione, immaginazione e capacità di ridere di te stesso e di imparare dai tuoi errori» chiosa dal canto suo lo sceneggiatore scozzese nel suo saggio Pop Magic, titolo che esprime bene la dimensione ludica in cui l’idea morrisoniana di esoterismo si muove; un gioco sempre colto in cui ogni aspetto del reale (e dell’irreale) sembra trovare collocazione, come quello messo in scena sulle pagine di Nameless, che non consente in alcun momento di abbandonarsi ad una lettura passiva e che legittima l’ipertrofia dei piani narrativi di quello che potremmo definire a tutti gli effetti un «iperfumetto», nel quale ogni percorso, borgesianamente, conduce a una biforcazione, ogni mistero risolto apre nuove domande.
A rendere masticabile un simile boccone ci pensano i disegni di Chris Burnham (già coautore con Morrison della serie Batman Incorporated), il suo tratto sporco, allo stesso tempo suggestivo e brutale nel dare rappresentazione visiva anche al più piccolo dettaglio disturbante, «corporeità» alla scena più splatter e ad una violenza a tratti parossistica, ma mai fine a sé stessa o ingiustificata. Questa volontà di comprendere in sé ogni possibilità, che anima testo e disegni, trova una perfetta rispondenza nella sorprendente varietà di soluzioni adottate per il montaggio delle tavole, che passa senza preavviso da forme più tradizionali – come la consueta «gabbia» su sfondo bianco o le splash-page care al fumetto americano – ad architetture della pagina più sperimentali in cui strette vignette dagli angoli smussati, oltre a richiamare alla mente i fori della cosiddetta dreamachine (strumento che ritorna, non a caso, più volte nel corso della storia, in grado di far cadere l’osservatore in una sorta di «trance» onirica), sembrano formare, combinandosi tra loro, alcuni dei simboli magici di cui l’opera è disseminata. I disegni, le didascalie e gli sfondi diventano, in tal senso, tessere di un mosaico che il lettore è chiamato a ricostruire, portando al massimo grado quella che può essere considerata come una delle prime specificità del linguaggio fumettistico, ovvero l’uso dello spazio sulla tavola in funzione narrativa (e iper-narrativa, in questo caso).
Il viaggio nell’abisso, tanto fisico quanto psicologico, organizzato da Morrison e Burnham, che inizia significativamente con il furto di una «chiave onirica», un grimaldello per il mondo dei sogni, trova forse la sua migliore lettura proprio come originale tentativo di emulare, con i mezzi del fumetto, il funzionamento della dreamachine e i suoi effetti sull’osservatore: come il macchinario caro a Burroughs – concepito all’inizio degli anni Sessanta da Brion Gysin e Ian Sommerville – anche l’apparentemente insensato delirio che si dipana pagina dopo pagina nel fumetto assume il profilo di un elaborato congegno che, agendo «subliminalmente» sulle aree più profonde del cervello e della coscienza, stimola la formazione di nuovi, caleidoscopici sogni. Fatti ad occhi aperti, ben inteso, e quindi ancor più difficili da distinguere da una realtà altrettanto inconsistente, a cui spesso si avviluppino come un uroboro (altro potente simbolo arcano) in una perversa circolarità senza vie di uscita che si ripropone sempre uguale a sé stessa. Ecco che la visionaria opera di Morrison può essere affrontata indifferentemente da qualsiasi punto, persino partendo dalla fine e leggendo a ritroso; ogni pagina, come le carte dei tarocchi, si rivela così una potenziale soglia, uno spiraglio attraverso cui accedere nel mistero di un universo cangiante e inconoscibile, che è poi quello dell’animo umano.