Dino Campana / “Canti Orfici” 1914-2024, una lunga fedeltà

Gianni Turchetta ci offre, con il Meridiano di Dino Campana, il lavoro di una fedeltà a cui ha dedicato l’intera vita.
Dino Campana, L’opera in versi e in prosa, a cura di Gianni Turchetta, Meridiani Mondadori, pp. CXCVIII, 1540, euro 80,00 stampa

Ogni anno questa storia, direbbe Camillo Sbarbaro, ripensando alla nuova stagione che si ripete, ripensando alla poesia e a quel “ragazzaccio” che risponde al nome di Dino Campana. Lui addirittura più giovane del poeta di Marradi, lui nato a Santa Margherita nel 1888, mentre Dino vide i suoi natali tre anni prima. Più giovane, certo, non so se più saggio o di mente più limpida, certo più tranquillo negli spostamenti e negli interessi amorosi. Ma chissà… Montale, tanto per nominare un terzo incomodo, definì Sbarbaro “estroso fanciullo”, in una famosa poesia sempre citata con ragione o meno, quando si tratta dei poeti genovesi di quegli anni. Ma questa è un’altra storia, anche di rapimenti letterari, se vogliamo, dato che il nostro ligure premio Nobel e gran fuggitivo di questa Riviera orientale, non fu avaro di scopiazzature condotte con rigore filologico sui versi del collega della Riviera di Ponente. Lasciamo stare.

È Sbarbaro che conosce Dino Campana, a Firenze nel 1914, al rinomato caffè Paszkowski: là ricevette l’unico libro (e unico lo fu per sempre) di Dino, i Canti orfici, donati soltanto a chi se lo meritava, e già questo la dice lunga sul caratterino di questo toscanaccio che probabilmente cominciò a scribacchiare versi “eterni” fin da ragazzo, specie di Rimbaud nostrano: “Robetta da fiera” li chiamava, dimostrando la stessa verve del collega francese. Sbarbaro lo ricorda in uno dei suoi Taccuini intitolati Trucioli, e lo ricorda così bene tanto da scrivere che “… sghignazzava; moveva le membra disordinatamente. Un disagio nasceva intorno a lui come potesse di punto in bianco, sventatamente, cavar di tasca qualche cosa d’insanguinato.” In realtà dalla tasca uscì la prima edizione dei Canti orfici, stampata nel luglio di quell’anno dalla Tipografia Ravagli di Marradi, a spese proprie e non priva di errori e refusi. Dopo questo primo incontro avvenne che Campana cercò l’amico sette anni dopo, a Genova nel 1921, e la parola “amico” forse è esagerata perché questa volta nemmeno dà la mano a Sbarbaro, dimostrando una reticenza non distante dalla timidezza. Sempre nel diario dei Trucioli il ricordo è preciso: Dino arriva in Piazza Sarzano, l’antica piazza dei tornei a cui salgono molte strade e il sentore del mare. Seduti a un tavolo d’osteria rivolge all’ospite questa frase: “Tu eri Sbarbaro… E ora chi sei?” Al silenzio di quest’ultimo ribatte fischiettando: dopo una frase tanto geniale non poteva che richiudersi nella propria timidezza, nel suo essere “selvatico”, diremmo noi genovesi, naturalmente in dialetto.

Campana a Genova fu un osservato speciale, la polizia lo teneva d’occhio, poco convinta della ragione diciamo così “ufficiale” di quella visita, e cioè seguire le lezioni di chimica all’università, e anche trovar giovamento dall’aria del mare. Dalla famiglia Sbarbaro stette non più di tre giorni, mal sopportato per via dei pidocchi, ma lui pure stufo d’esser ospitato: “… lo guardai allontanarsi col suo passo di giramondo verso i carrugi di Sottoripa”. In tasca aveva Le foglie d’erba di Walt Whitman. Proprio di quest’ultimo poeta egli aveva messo in epigrafe ai suoi Canti questo verso, che, tradotto dice: “Essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo.” Contro il fanciullo, tutti si scatenarono, a cominciare dai coniugi Campana, che prima internarono il loro ragazzo in manicomio e poi lo spedirono in Sudamerica con in tasca un biglietto di sola andata. Una specie di estradizione, insomma. Ma il ragazzo era tosto, ritornò entrambe le volte. Gli abitanti di Marradi lo derisero e perseguitarono come il matto di turno. I letterati di quegli anni, poi… lo trattarono con sufficienza, forse ebbero paura della sua opera, di quello che a stento riuscivano a raggiungere con mezzi propri, in poesia. Non parliamo degli psichiatri, che usarono su Dino i primi esperimenti con l’elettricità, ancor prima del famigerato elettroshock. I due dunque bevvero vino, parlarono di poesia, con che tono possiamo solo immaginarlo. Lì vicino, poco più in basso, c’è un altro luogo da ascrivere alla mitologia campaniana, quel “Caffè degli specchi”, ancora oggi operante e quasi del tutto intatto al piano terreno, definito “grotta di porcellana”, per via delle piastrelle lucide e gialline. È nella terza strofa della poesia Genova, dove il nostro poeta e “matto per forza” scrive: “Sorbendo caffè / Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce / Tra le venditrici uguali a statue, porgenti / Frutti di mare con rauche grida…” Dino era passato da Genova già nel 1910 e nel 1913 fu perfino ospite del carcere di Marassi. Oggi la folla continua a salire e scendere, le donne di pescheria si sono trasferite altrove o sono tutte morte. Così come le “troie dagli occhi ferrigni” cantate in un’altra celebre poesia, e parte della collezione per niente povera o “reticente” di ritratti femminili che si possono leggere nei Canti orfici.

Opera unica di Dino Campana, unico libro che ha trovato e provato di tutto nella sua escursione lungo il secolo (il ’900), e ancor prima che venisse stampato: famigerata la scomparsa del primo manoscritto dei Canti, allora intitolati Il più lungo giorno. Scomparsa? Papini e Soffici semplicemente lo dimenticarono in un armadio, e fu infatti ritrovato per caso sessant’anni dopo. Di tutto, così come nella sua vita il nostro poeta ha sperimentato, e non certo per follia – se mai fu la sifilide a corrodergli il sistema nervoso. Negli ultimi anni, di Campana si è voluto ricordare soprattutto l’amore contrastato, ma molto meno di quanto ce ne raccontano le cronache più o meno sceneggiate, con Sibilla Aleramo. Lo si legge nel carteggio fra i due: si incontrano d’estate, nel 1916, fra le montagne del Mugello, dopo essersi scritti. Ma è l’inizio, gli incontri e gli scontri si ripeteranno, certo la poetessa non è donna di facile appagamento, diventerà poi simbolo di liberazione femminile, ma intanto fu costretta a curarsi sia dalle botte che dall’infezione portata dall’amante. Sistemò, dicono, in bella copia l’epistolario, per riguardo verso i posteri, ma probabilmente cercò di rendere più sostanzioso il riguardo per sé stessa. Ma sono gli anni in cui Dino è a tutti gli effetti “matto” ed assunto in manicomio, dove resterà fino alla morte, avvenuta nel 1932.

Certo, come ha detto più volte Carmelo Bene, gli anni del manicomio furono ben di più: se ci ripensiamo durarono l’intera vita. Ma non esiste niente di simile ai Canti orfici, nella poesia italiana del ’900: di questo possiamo esserne ben sicuri. Le edizioni si succedono di continuo, tanto per ripagare l’indigenza iniziale, e la stitichezza dei letterati che dettavano legge in quegli anni d’inizio secolo. C’è un canto che conquista, forse soprattutto il lettore giovane, che sente l’ardore adolescenziale finire in un’esperienza senza ritorno, ma che intanto ha tutta la realtà del viaggio, delle donne, delle aspirazioni alla fama. Se di popolare possiamo dire, o di pop secondo una terminologia a noi più vicina, allora l’incanto dei Canti, e scusate il bisticcio, mi sembra perfetto: non a caso Carmelo Bene ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia. L’energia che vi trae è la stessa che rese Dino Campana una specie di freak in anticipo sui tempi, ma senza il bagaglio superficiale e anche un po’ tecnologico che accompagna lo sbandato moderno. Essere “fuori”, “out” fu la sua epopea: mentre Rimbaud rinnegò tutto, andando in Africa a tentare il commercio delle armi (dove scrisse lettere alla madre e alla sorella che definire pietistiche è un complimento), Dino ha dato gas al proprio motore, fino all’ultimo, fino a scoppiare, e tenendo sempre ben stretto il proprio Libro. Ma, ricordiamolo bene, non fu matto per davvero: fu solo malato e inchiodato all’etichetta che quei signori decisero di regalargli. Per comodità, per inerzia, per paura, per scemenza.