Cenni di “archeologia del vampiro”

Il vampiro folklorico. Cenni di Archeologia

In uno studio puntuale e rigoroso, pubblicato per i tipi de Il Mulino nel 2011, Prima di Dracula. Archeologia del vampiro, Tommaso Braccini ricostruisce il processo di formazione del vampiro all’interno dei territori dell’Europa orientale. Nel nostro immaginario le regioni natali del diabolico succhia sangue coincidono con le impervie montagne della Transilvania dove sorge lo spettrale castello del conte Vlad III, Principe di Valacchia ‘Tepes’, l’impalatore. Lo stesso epiteto, «Draculea», figlio del demonio in romeno, trasformatosi sotto la penna di Bram Stoker in nome proprio, rinvia a una dimensione di soprannaturale infernale. Al termine della lettura del saggio di Braccini, tuttavia, scopriamo che il vampiro di Stoker poco o nulla condivide con il vampiro folklorico orientale, la cui origine è da collocare indubitabilmente nell’ambiente ortodosso della Grecia bizantina. Alcuni tratti isolati da Braccini confluiranno nello stereotipo del vampiro ottocentesco occidentale, benché in quest’ultimo risultino assenti altri elementi fondanti.

Schematizzando i caratteri tipologici dei vrykolakes, ovvero i vampiri orientali, si rivelano imprescindibili la natura liminale di morti-non morti, la capacità di diffondere pestilenze ed epidemie, le modalità e i rituali per ricondurli allo stato della morte irreversibile: conficcare un paletto nel petto e tagliare la testa. Mancano siano l’ematofagia sia la tensione e la perversione erotica. Dopo un’attenta ricognizione delle testimonianze dell’antichità classica, Braccini esclude la presenza vampiresca all’interno della cultura greco-romana e rivolge, invece, il suo sguardo alle storie e alle leggende che hanno sostanziato l’immaginario di popoli nordici e slavi. In particolare, tracce significative della figura del revenant malefico costellano i testi di area scandinava e anglosassone del periodo medievale.  Già intorno all’anno Mille, nel penitenziale di Burcardo, vescovo di Worms, il prelato condannava la pratica di alcune donne, colte a conficcare un paletto nel petto di neonati morti prematuramente senza battesimo. La stessa strategia veniva adottata per rendere innocui i cadaveri delle puerpere morte di parto. In area scandinava, invece, imperversa la figura del draugr (plurale draugar), un vero e proprio fantasma corporeo in grado di nuocere e di ingannare i viventi. La stessa etimologia del termine draugr derivante da una supposta radice indo-europea *DREUGH attiene al campo semantico dell’inganno e del malevolo nuocere. Nella saga di Grettir, l’eroe riesce a sconfiggere Glam, dalla statura gigantesca e dall’aspetto deforme e belluino, tagliandogli la testa e collocandogliela in mezzo alle gambe. In altri racconti, secondo quanto riportato da Saxo Gramaticus, il draugr compie scorribande di notte uscendo dal tumulo e uccidendo gli abitanti del villaggio. Quando il cadavere viene riesumato, si nota che non è decomposto e che ha un aspetto orribile. Ma i draugar possono giocare meschini tiri ai viaggiatori chiedendo di essere traghettati sulle spalle da una sponda all’altra del fiume e divenendo gradualmente così pesanti da causare l’annegamento del malcapitato. La sorte toccata a Glam chiama in causa il fenomeno delle “sepolture anomale” di epoca antica, una delle quali rinvenuta a Camerano (Marche, sec. IV a.C.), in cui la testa decollata è posizionata tra le gambe del defunto, quasi a volerne esorcizzare la tentazione di una rinascita o ritorno malevolo. Sull’interpretazione di queste testimonianze archeologiche, tuttavia, gli studiosi non hanno trovato un comune accordo, dal momento che l’opera dei tombaroli potrebbe aver alterato il contesto funebre.

Affini invece ai nefasti poteri pestilenziali dei draugar si rivelano le varie presenze di revenants che assillano l’Inghilterra medievale. Nei testi di storiografi e di letterati della fine del secolo XII, i cadaveri che scorrazzano di notte seminando morte e terrore sono numerosi. Si tratta di testi di ambito monastico, per quanto riguarda la storiografia (Guglielmo di Newburgh, Historia rerum Anglicarum/Storia degli Angli) e di provenienza curiale (la corte Plantageneta per la raccolta di Walter Map, De nugis curialium/Gli svaghi di corte). Guglielmo narra il caso di un uomo che risorge dal proprio tumulo per introdursi nel letto della moglie, causandole un indescrivibile spavento. Messo in fuga dalle urla della donna e dalla presenza dei parenti, il morto si palesa di giorno provocando grande turbamento. Infine il presule del villaggio decide di esumare il corpo e darlo alle fiamme. Sempre Guglielmo, in Historia rerum Anglicarum, riporta il racconto di un altro revenant, questa volta esplicitamente definito sanguisuga: “i giovani (…) infersero una ferita al corpo esanime: ne fuoriuscì così tanto sangue, che capirono che si trattava di un succhia sangue (sanguisuga)” (p.190), che provoca un’epidemia mortale (pestilentia) tra gli abitanti. Il morto risorto di Berwick, sempre dall’Historia, è invece un infero, animato da Satana (“usciva di notte dal tumulo per opera di Satana”): l’effetto delle sue scorrerie sempre si risolvono in una corruzione nefanda dell’aria e in una diffusione di un inspiegabile morbo (p. 184).

Contemporaneo di Guglielmo di Newburgh, Walter Map, autore di Svaghi di corte, compone in latino una raccolta composita di storie e aneddoti a uso e consumo del pubblico di corte. Muta quindi il contesto rispetto alla compilazione storiografica monastica di Guglielmo, ma la presenza di storie riconducibili alla tipologia vampiresca testimonia la radicata predilezione e il gusto duraturo per le vicende soprannaturali inquietanti. All’altezza della distinctio II, capitolo 27, Walter narra la strana avventura di Guglielmo Laudun, il quale sconfigge il temibile fantasma corporeo di uno stregone gallese che di notte chiama i suoi concittadini per nome provocando la loro improvvisa malattia e quindi la morte nell’arco di tre giorni. Solo la decollazione completa dell’essere infernale porrà termine alla strana epidemia. Qualche capitolo precedente, II, 14, lo scrittore riporta l’episodio della nobile matrona infanticida. Una coppia assiste inerme alla morte in successione di quattro figli sgozzati nella culla. Alla nascita del quinto, i coniugi decidono di vegliare e quando vedono la figura della matrona avvicinarsi al bambino, interviene un predicatore itinerante che grazie a un esorcismo rivela la vera natura demoniaca dell’essere: il diavolo ha assunto le sembianze (simulacrum) della pia donna per traviarla e trascinare la sua anima all’inferno. Certamente non si parla esplicitamente di vampirismo né di cadaveri che riprendono vita, ma la presenza del sangue infantile (alimento di striges e lamie) ne facilita lo slittamento verso altri ematofagi, come accade all’interno del folklore dei Balcani settentrionali, dove si può “supporre ci sia stata un’osmosi precoce con la figura della strega” (Braccini, p. 175). In romeno il termine strigoi spesso indica il vampiro.

Ma l’area slava che ha lasciato già dal Medioevo le tracce più consistenti, in termini lessicali, coincide con l’area russa. Upir è una forma attestata in Russia intorno al 1047. A questa importante testimonianza linguistica non si associa, tuttavia, un altrettanto convincente dossier narrativo. Afferma Braccini che in realtà l’apporto slavo alla costituzione della figura del morto che ritorna è estremamente ridotto. Come anticipato nella premessa l’area di gestazione è invece la Grecia ortodossa, all’interno della quale ai vrykolakes si affianca un’altra tipologia di morti impuri, i tympanianoi (letteralmente “gonfi come tamburi”). Il riferimento al gonfiore del cadavere tradisce una parentela semantica con lo stesso termine uipir, per spiegare il quale gli studiosi hanno proposto un collegamento etimologico con una serie di termini slavi indicanti la pancia o il gonfiore. L’associazione, tuttavia, più interessante è incentrata sulla connessione etimologica con l’eresia. Braccini in effetti riesce a restituire un quadro documentario convincente da cui si evince il legame tra la figura del vampiro di ambito ortodosso e la diffusione dell’eresia: al di sotto dei tratti demoniaci del vrykolaka si concentra la paura angosciante di una comunità insidiata nelle sue certezze identitarie religiose.

L’esplosione della sindrome vampiresca in aera greco-balcanica si colloca comunque in epoca moderna. Nel saggio di Braccini le testimonianze documentarie sui fenomeni di panico di massa nei confronti del morto che ritorna per uccidere e nuocere si fanno sempre più fitte a partire dal 1600 fino a culminare con uno degli ultimi esorcismi post-mortem nel 1800: la liberazione dalla dominazione ottomana sembra così depotenziare la funzione difensiva dell’identità religiosa che il vrykolaka aveva rivestito per la chiesa ortodossa. Una delle fonti più importanti è costituita dall’opera di Leone Allacci (secolo XVII), teologo greco, il quale ci consegna quadri di credenze popolari sui non-morti estremamente interessanti e complesse sotto la patina della cristianizzazione. Si evince per esempio che il vampiro greco non si nutre di sangue, bensì di legumi e vegetali. L’ematofagia si realizza proprio grazie alla sovrapposizione con altre figure che vanno dalla strega al lupo (mannaro). Inoltre a giustificare la fede nella possibilità concreta del ritorno dei morti, si colloca il particolare aspetto dei cadaveri parzialmente decomposti. L’ignoranza di alcune leggi fisiche inerenti al processo di decomposizione, secondo Braccini giustifica il terrore e le crisi di isteria collettiva dinanzi alle esumazioni di corpi quasi intatti. Ciò che accomuna in ogni caso le narrazioni riguardanti i morti-non morti precedenti il vampiro di creazione inglese ottocentesca sono gli effetti epidemici e pestilenziali scatenati dalle loro apparizioni. A metà tra gli zombies degli horror movies e i vampiri del filone horror splatter, gli antenati di Dracula mancano di quel fascino sinistro che circonfonde il dandy maledetto di stampo byroniano [Silvia Arzola, “Da Polidori a Varney”, Pulp] che le produzioni cinematografiche del secolo Ventesimo hanno indelebilmente fissato nel nostro immaginario.

BIBLIOGRAFIA

La saga di Grettir, a cura di V. Grazi, Napoli, Istituto universitario orientale, 1983
Saxo Gramaticus, Gesta dei re e degli eroi danesi, Torino Einaudi, 1993
Guglielmo di Newburgh, Historia rerum Anglicarum. Chronicles of the reigns of Stephen, Henry II and Richard I, 2 voll., ed. by R. Howlett, London, Longman («Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores», 82), 1884; libro V, cap. XXIV
Walter Map, Svaghi di corte, a cura di F. Latella, Parma, Pratiche, 1990