La tradizione dei gialli culinari, per definirli con Rosalba Graglia (autrice di un’antologia personale sul tema edita da Morellini) viene da lontano e, a quanto pare, incontra sempre più i favori di un pubblico, affamato (ops…) forse più di ricette mirabolanti che di meccanismi metaforici dove, alla fine, la figura dello chef rischia di confondersi con quella dello scrittore. Il mercato li chiama anche food thriller, giusto a comunicare che omicidi e sangue in dispensa si possono comunque stemperare con pregevoli menù di altissima ristorazione.
Per fortuna Matteo Colombo si dimostra perfettamente in grado di amministrare l’implicita ruffianeria di quello che si vuol definire “sottogenere” e ci confeziona da par suo un romanzo che si divora (ci ricasco, mannaggia!) nel tempo di un week-end. E per doppia fortuna la componente alimentare è protagonista dinamica quando non drammatica di una vicenda ricca di suspense, sorretta da uno stile asciutto e perfetto, e attraversata da personaggi perfetti sotto il profilo umano e drammaturgico.
Ovvio, trattandosi di un giallo, che io non abbia a dilungarmi oltre più del dovuto, almeno non più di quanto si conceda la quarta di copertina. Perciò, soffermandomi sul titolo, va da sé che la sigla dica già molto a chi frequenta minimamente il mondo della ristorazione: Q.B. All’apparenza starebbe per “quanto basta”, ma chiamandosi lo straordinario protagonista chef Quinto Botero, non si hanno certo dubbi sul piacevole imbroglio di carte. In verità, dal mio non condivisibile punto di vista, l’omicidio deve essere gestito un po’ alla Thomas De Quincey, ovvero deve presentarsi come opera d’arte, proprio come la cucina di Botero. E qui ci siamo: il primo assassinio arriva presto, senza fronzoli né antipasti pesanti, e ci pone subito davanti a due spiazzanti realtà. Per quanto perfetto nelle sue movenze e nella mira, l’assassino ha sbagliato vittima e soprattutto è un serial killer, classico “fantasma” del genere. Pur dovendo fare i conti con l’archetipo di tanta letteratura poliziesca italica, un commissario che si chiama Stoppani e gira sempre in loden, Colombo investe subito Botero dell’onere e dell’onore dell’indagine, anche perché si capisce quasi al volo che la vittima designata doveva essere lui, lo chef del momento nell’Italia che conta.
Adesso devo sul serio tacere e, proprio facendomi violenza, dichiarare la mia ammirazione per la tecnica contrapposta delle due soggettive narranti, l’una, evidente, di Quinto Botero e l’altra del povero morto, che racconta la storia dal suo punto di vista che non sappiamo se essere interfacciato o esistente su una qualche invisibile nuvoletta a pochi metri dal suolo. Poco conta il saperlo. Colombo è abilissimo nella gestione sincronica delle due visuali e, al di là di uno humour sotteso che forse è solo mio, la vicenda si snoda fra colpi di scena e brillanti trovate sino alla suspense quasi intollerabile delle pagine finali.
De hoc satis. Se vi piace il genere, tra le uscite degli ultimi anni vanno segnalati Cenere e silenzio di Teutonico e Pippia (un food thriller diviso in portate e non in capitoli; Tempesta, 2016)), Il gusto di uccidere di Hanna Lindberg (Longanesi, 2019), ambientato nel mondo dell’alta cucina di Stoccolma, Omicidi all’acqua pazza di Umberto Cutolo (Clichy, 2017) e Aglio, olio e assassino di Pino Imperatore (DE Agostini, 2018). Giusto a evidenziare la vitalità del genere (che non è affatto un sottogenere) di cui il lavoro di Matteo Colombo rappresenta un apice difficilmente eguagliabile. Infine, particolare di non poco conto, il libro ha inaugurato una collana che s’intitola La porta dei demoni (non chiedetemi perché il nome mi piace così tanto…), diretta da un grande scrittore friulano, quel Flavio Santi che ci ha deliziato in tempi recenti con due formidabili indagini dell’ispettore Drago Furlan, raccontate rispettivamente ne La primavera tarda ad arrivare (Mondadori, 2016) e ne L’estate non perdona (Mondadori, 2017). Nocchiero migliore per scoprire e oltrepassare la porta dei demoni non ci potrebbe essere.