«Il linguaggio è molto più incasinato che inclusivo»
Basta, forse, questa frase – citata nel libro a partire da una conversazione di Brigitte Vasallo con un’altra autrice transfemminista, Andrea Beltramo – a dare un’idea di fondo delle tesi, e anche della forma, del suo saggio (Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, trad. Giusi Palomba, Tamu, pp. 96, €14 stampa). Il titolo, invece, ricalca pedissequamente l’originale (Lenguaje inclusivo y exclusión de clase, Larousse, 2021), ma può risultare fuorviante, se inteso come una strategia di radicamento in quella produzione teorica di estrazione accademica che troppo spesso è rimasta invischiata nel dibattito sul cosiddetto “politicamente corretto”. E questo è successo anche, forse in modo preponderante, a causa di un preciso orientamento culturale egemone che – sembra opportuno sottolinearlo ancora una volta – non è per nulla transfemminista, e anzi alle istanze transfemministe è fortemente avverso.
“Politicamente corretto”: niente di più lontano dagli argomenti e dalla forma del testo di Vasallo. Riconoscendo i tratti ipertrofici, talora depoliticizzanti e certamente classisti di certa produzione teorica, Vasallo rivendica la legittimità e il potenziale della propria condizione di mujer de barrio (donna dei quartieri popolari), allo scopo di rimettere in discussione alcuni nuclei fondamentali di una questione molto ampia. Il testo, infatti, spazia dai temi dal “linguaggio inclusivo” a quelli del conflitto di classe – che si parli di “esclusione di classe”, nel titolo e nel libro, sembra piuttosto sintomatico, come si cercherà di dire – restando nell’alveo di quello che Franco Bifo Berardi, fra le tante autrici e autori, ha contribuito a definire come “semiocapitalismo”.
La scrittura è sorretta, dunque, da un proposito valido e urgente – condiviso, in passato, da me e Franco Palazzi in questo intervento su Jacobin – argomentato, con un’intensa capacità dialettica e che spesso finisce per abbracciare questioni generalmente rimaste invisibili o impensate. Vasallo, in altre parole, non si concentra in modo diretto o esclusivo sul dato linguistico e sulla ricerca di soluzioni grafiche soddisfacenti: così facendo, aggira, da un lato, il panico morale, traslato sulla lingua, che è tipico dell’orientamento culturale egemone già citato, intimamente anti-transfemminista; dall’altro, e forse in modo ancor più interessante, sottolinea come vi siano altre questioni che sono altrettanto, se non più urgenti, se si pratica un’adeguata critica dell’ideologia.
Il libro, in effetti, si apre con una mossa piuttosto imprevedibile in relazione al contesto, ovvero con un’appassionata difesa di una nota personalità televisiva spagnola, Belén Esteban, e del suo progetto di scrivere un libro basato, tra i vari aspetti, sulle sue letture preferite. Ora, Belén Esteban è nota in Spagna con il soprannome “la principessa del popolo”, perché «nonostante sia ricca, ha ancora modi da poveri» (p. 28), e i suoi programmi (“Sálvame” e poi “Deluxe”, su Telecinco) sono generalmente rubricati come trash: a partire da questo, il suo contatto con la letteratura è sembrato, tanto “dall’alto” quanto “dal basso” – in termini di prospettiva di classe – una contaminazione piuttosto impudica (per usare un eufemismo vittoriano). Radicalizzando la metodologia degli studi culturali, invece, Vasallo sostiene che « l’avanguardia è la sua, non quella di Rosalía» (p. 29) – dell’artista, cioè, che ibridando vari generi musicali, popolari e non, ha recentemente ottenuto un successo internazionale con i dischi El mal querer (2018) e Motomami (2022).
Le ambizioni culturali di Belén Esteban, invece, danno «talmente fastidio da disturbare la struttura stessa del sistema» (p. 28), presentando una storia di scalata sociale e di acquisizione di capitale simbolico paragonabile a quella di Lady D, negli anni Novanta, ma che proprio per la sua portata dirompente presta il fianco ai già citati giudizi, e pregiudizi, classisti.
La provocazione di “Belén Esteban feat. Dostoevskij” – così recita il titolo del capitolo di Vasallo – spalanca una finestra sulla comunicazione letteraria e artistica di (inevitabile, per chi legge, pensare alla questione booktokers) e al tempo stesso mette in crisi un certo classismo introiettato nello sguardo di tutte le classi sociali – fasce popolari incluse, secondo un intendimento qui del tutto gramsciano – mirando a colpire dall’interno quello stesso “sistema” messo in forte imbarazzo dalle strategie di marketing del personaggio-Belén Esteban.
Al di là della specificità, anche commerciale, del caso, una dicotomia che vi è connessa e che viene riproposta spesso, nelle pagine di Vasallo, è quella che contrappone due fonti di conoscenza apparentemente assai diversa come la formazione scolastica e universitaria – in una parola, istituzionalizzata – e l’autoformazione:
«Mi irrita che la Conoscenza sia l’unica opzione che riteniamo legittima, molto più delle possibilità di autoformazione attraverso un percorso basato su di sé, sulle proprie necessità contestuali e sulla propria curiosità, costituito da un misto di trasmissione orale, letture, accesso ad altri prodotti culturali, dibattiti tra pari. Percorsi che non hanno una cornice temporale, che non iniziano a settembre alle quattro del pomeriggio nè finiscono un giorno di giugno con una cerimonia di laurea, né titoli né certificati» (pp. 50-51).
Tale affermazione ricorre spesso anche nell’interludio che unisce le due parti del libro, dove viene riportata una conversazione via Whatsapp di Vasallo con Carmen Fernández, della Asociación Gitanas Feministas por la Diversidad, in occasione del primo congresso di femminismo rom, tenutosi a Madrid nel 2017. Qui, ad esempio, si può leggere: «Noi sappiamo che le donne più sagge, con più saggezza, con più esperienza, con più resistenza, non sono esattamente quelle passate per l’accademia», per poi passare a una tesi successiva che risulta un po’ meno dirompente (e molto più ambigua, se si pensa alla lunga tradizione di lotte femministe sul lavoro domestico) come questa: «Lo spazio più importante non è l’accademia. Lo spazio più importante per noi, la nostra eredità, dove apprendi, dove ricevi questa saggezza, è la casa, non l’accademia» (p. 93).
L’interludio, d’altra parte, dimostra che le peculiarità della posizione di Vasallo non sono modellate unicamente sulla storia, anch’essa fortemente localizzata, delle escuelas populares e delle Instituciones Libres de Enseñanza, ma attingono anche al confronto con il femminismo rom e musulmano. Due canali aperti da molto tempo, tra l’altro, ma ancora poco esplorati, nel vasto dialogo, non privo di conflittualità, a livello globale, tra teorie e pratiche femministe di varia estrazione: se, negli ultimi anni, tale dialogo è tornato alla ribalta della produzione editoriale italiana (anche per merito della stessa casa editrice Tamu, che ha esordito nel 2020 con Elogio del margine/Scrivere al buio di bell hooks), si è forse lasciato in secondo piano il portato di alcune teorie e pratiche femministe attive nel continente europeo, ma collocabili in una posizione laterale rispetto al mainstream accademico transnazionale.
Stupisce un po’, a questo punto, che una delle risorse teoriche principali di Vasallo torni a essere il noto saggio di Gayatri Chakravorty Spivak “Can the Subaltern Speak?” (1988), che ha segnato un’importante, per quanto già ampiamente storicizzata, linea di frattura nella tradizione degli studi postcoloniali e subalterni, e con la quale Vasallo coincide abbastanza nettamente, tanto nell’interrogativo quanto nella risposta, quando afferma che: «I* subaltern* non possono parlare» (p. 132). L’inclusione di tale prospettiva nel semiocapitalismo contemporaneo porta Vasallo ad altre riflessioni, altrettanto nette: «ciò che è simbolico, in tempi di semiocapitalismo, è il grande piano di disattivazione. Perché mentre agiamo nel e a partire dal simbolico, il livello materiale rimane inalterato oppure ridotto all’irrilevanza» (p. 128).
Ed ecco tornare, su questo punto, la questione del “linguaggio inclusivo”, che vorrebbe decostruire il binarismo dei generi, ma spesso, non potendo uscire dalla presa del simbolico, non fa altro che riproporre tale binarismo e rafforzarlo. Ora, se quest’ultima obiezione di Vasallo trova sponde anche nell’orientamento ideologico egemone, generando nuove occasioni di ambiguità, è però di fondamentale importanza sottolineare quanto viene affermato poco dopo: «gli strumenti del padrone non sono le parole, ma il contesto e i suoi processi» (p. 131).
La ricerca di un linguaggio che non porti a “ri-subalternizzare” chi lo usa – come l’autrice suggerisce nella pregevole analisi finale del film Eroski/Paraiso (2019) di Jorge Coira e Xesús Ron – e un ascolto del «sottotesto trascendente» (p. 176) del silenzio delle classi subalterne sono momenti certamente molto importanti. Tuttavia, non mettono completamente in discussione «il contesto e i suoi processi» e ci costringono, infine, a quel «terribile fallimento collettivo» (p. 176) sulle cui note si chiude, amaramente, il testo.
Forse, un’alternativa a questo esito radicalmente negativo passa anche dal superamento dalla dicotomia, di stampo tutto sommato liberale, tra “inclusione” ed “esclusione” sulla quale si regge, in fin dei conti, tutto il testo di Vasallo – interessando anche, come si diceva, la classe.
Finché, infatti, si concepisce una “esclusione di classe” che non è, né può essere, conflitto di classe (e si concepisce il “sistema” in senso strettamente culturalista, intendendolo cioè come frutto della perversità discorsiva dell’universalizzazione, e non come il prodotto di forze soggettivamente e oggettivamente oppressive), si rimane nelle secche cui accenna indirettamente anche la postfazione di Giusi Palomba, traduttrice e curatrice del libro, con la citazione di Melancolia di classe (Atlantide, 2022) di Cynthia Cruz:
«Poiché ogni aspetto della cultura e della società è espressione della borghesia, fin da piccoli iniziamo a introiettare e assimilare in modo inconscio i suoi valori e desideri. Allo stesso tempo, poiché il concetto di classe sociale è stato rimosso dal discorso, non abbiamo più le coordinate per definire ciò che perdiamo in quel processo».
Testi come quelli di Brigitte Vasallo aiutano a recuperare una certa radicalità dello sguardo e alcune di queste coordinate; altre sembrano ancora arenate nelle secche della rimozione, in attesa di nuovi interventi individuali e collettivi che, come questo libro, e a partire da questo libro, rimettano nuovamente in circolo valori e desideri. A luta continua…