Di farmaci poetici e panificazioni

Elisa Ruotolo, Corpo di pane, Nottetempo, pp. 80, euro 10,00 stampa, euro 4,99 epub

In epoca di farmaci mancanti, di soluzioni più improbabili che realistiche, di rovinose tenzoni con microscopiche entità domiciliate nel pianeta e capaci di sopravvivere almeno per un po’ pur destinandosi (ma non lo sanno) a soccombere, in questo tempo di totale insicurezza sulle posologie e di iper-controlli, Elisa Ruotolo avverte di non riformare il dolore in “commercio di misericordia”, di tenerlo lontano dagli affollamenti inconsulti. L’autrice prevedeva quel che sarebbe accaduto? Profezia o presentimento? Dobbiamo credere alle ipotetiche doti dei poeti di prefigurare futuri prossimi, e arie sempre più tese? Le immagini che vediamo ogni giorno non lasciano spazio all’immaginazione: eventi infausti nel privato s’incrociano alla calamità pubblica. La poesia, in questi casi, ha gesti molteplici, assimilati o dissipatori, discreti o impulsivi, talvolta elusivi o ostili e perfino apocrifi, insomma segue la sua attitudine mimetica e primeggiante: però pochissimo evidenti, quasi sempre, sono le doti letterarie presentate nei diversi cataloghi. Corpo di pane è fatto di ben altra materia, Elisa maneggia con particolare grazia la sua devozione alla pratica linguistica senza incagliarsi in falsi significati. O, peggio, in sottili pratiche vessatorie verso i soliti ingenui. Non potrà mai pentirsi di adottare strutture care al dialogo, e quieti consigli che assumono l’aspetto di un vademecum esistenziale arricchito di saggezze temperate e temperanze umane.

Il punto di vista della poetessa è il punto di vista della vita, non c’è dubbio che le ferite al cuore debbano curarsi con metodi laici ma fabbricando nel contempo stanze spirituali in cui far rotolare le oscurità. Non ognuno per sé, qui si dice, ma il sé sempre alla testa di vibrantissimi viaggi ultra-comunicativi. Certo, “ho avuto febbri e pesti e colera / senza che nessuno ne prendesse nota”, non temeva di scrivere Elisa soltanto un paio di anni fa: ma gli eventi stavano preparandosi e presto le bordate biologiche avrebbero sorpassato la temuta e già iniziata estinzione dei ghiacciai, aggirandoci e prendendoci tutti in una tenaglia micidiale. Non siamo certi che la poesia abbia azioni curative, ma per strane e poco visibili vie l’azione linguistica ripara il pensiero umano – se esiste un patto e ammettendo la deposizione delle armi. I capitomboli suggeriti (ma mai descritti) dentro questo libro sono tanti, ma nessun odio del mondo vi si afferma, anzi la minuziosità del verso resta accesa in ogni pagina, e nelle pagine i documenti sono tutti aperti.

Se il cuore “è messo a nudo”, ancora più nudo si presenta l’umano dentro al mondo “devastato e vile” (copyright Giuseppe Genna). La nudità non accontenta la pratica meditativa (se così possiamo dire) di Elisa, perché non tutto si può fare in tale condizione: agire significa impastare l’inferno con il purgatorio, e ancora troppo riservati sono i paradisi. Non nascondiamo gli sbalzi di temperatura a cui siamo esposti durante le giornate, sempre più veloci e dannatamente “contagiose”. I suoi giorni l’autrice adagia in fila, non li mostra secondo consuetudini altrove impudiche, ma li dispone poiché sa benissimo che soltanto così le nostre facoltà, dopo le sue, saranno messe al pari di quel misterioso fenomeno che chiamiamo poesia. I panni leopardiani giungono dalle più diverse vie, questo è certo: “non c’è nulla che si possa dare senza pericolo”, dunque un qualsivoglia recinto protettivo bisogna pur erigerlo.

Un civilissimo piglio proviene da Corpo di pane, libro dall’aspetto per niente aristocratico e capace di dare uno scossone ai sensi anestetizzati dalla gran parte dei versi contemporanei. Sarebbe perfetto mostrarlo non come una raccolta di poesie (pur strettamente legate l’una all’altra) ma come un pamphlet di nitida medicina miracolosamente manifestatosi al tempo giusto, composto di sana e concatenata vitalità contro il morbo, per niente mirabilis, che alligna dentro (prima di tutto) e fuori di noi. Ma mancherebbe qualcosa alla nostra lettura, e faremmo un torto a Elisa Ruotolo che dai territori della sua nota prosa (un romanzo e una raccolta di racconti) si è presa la briga di bagnare il proprio sangue nell’aspra fedeltà alla lingua poetica – descrivendo il tempo che le era cresciuto intorno. Ma aveva bisogno di scrivere nel taccuino le posologie e le dosi necessarie a fabbricare il pane in cui intingere la carne. Perdonarsi le scomposizioni dovute all’amore presumeva un passaggio obbligato, non era tempo di narrare, non più, ma di dedicarsi alle superstiti simpatie per l’esistenza. Non per caso la realtà cominciava a sentirti indegna dell’autrice, mentre il silenzio a quel punto poteva essere strappato soltanto dalla poesia. Cautamente, facendo attenzione a stirare il vestito di tutti i giorni. E lasciando da parte quello della domenica.