Di cosa parliamo, quando parliamo di IA

Affidiamo all'intelligenza artificiale compiti noiosi e ripetitivi e teniamo per noi il piacere di scrivere articoli e libri e recensioni che portano inequivocabilmente il segno della nostra unicità.

Da giovane ero molto affascinata dall’idea dell’intelligenza artificiale.
Non sapevo bene cos’era. Ma tutto quello che vediamo oggi era di là da venire, e con l’ingenuità e l’arroganza della gioventù guardavo alla poca intelligenza che c’era in giro, e pensavo che quella artificiale avrebbe potuto in qualche modo supplire alle mancanze umane.

In fondo eravamo stati capaci di costruire degli aggeggi che non facevano errori di calcolo come invece facciamo noi. Quella ripetitività precisa della macchina, noi umani non ce l’abbiamo proprio. Le cose fatte a mano sono sempre leggermente diverse una dall’altra. Il ragù non viene mai uguale.

In ogni caso, dopo tanto parlare di intelligenza artificiale, un bel giorno dell’anno scorso, direi che era maggio, è arrivata ChatGpt. Tu chiedi e lei risponde. Non so perché la pensiamo al femminile… una chat è dove si chiacchiera, e quindi è femminile, no?

ChatGpt si nutre di tutto quello che da anni buttiamo in rete.

Non è che siamo stati troppo attenti, alla qualità di quel che mettevamo su internet.

Avevamo quel senso di possibilità, all’inizio, di un luogo dove finalmente quello che scrivo è pubblico e qualcuno lo legge (e così si accorge di quanto sono brava e intelligente). E poi siamo andati avanti con una sorta di coazione a ripetere, devo dire la mia, devo esserci, se in rete non mi trovano vuol dire che non esisto.

Gli editori, quelli cui spetta ufficialmente di rendere pubbliche opinioni idee teorie ecc, sono stati un po’ più cauti, un po’ più preoccupati, ma alla fine anche loro hanno trasferito enormi quantità di parole nella rete, che è molto fitta perché tutto trattiene. Quindi bei libri e brutti libri, scelte editoriali e obblighi editoriali, articoli frutto di lavoro accurato e notizie accrocchiate, opinioni fondate e opinioni infondate, lì fianco a fianco per sempre.

E ChatGpt pesca e impara da tutto, esattamente come abbiamo fatto e facciamo noi.

Poi, come fanno alcuni di noi, ChatGpt scrive.

Tu le dai delle indicazioni e lei (in italiano non abbiamo il neutro, e quindi teniamola al femminile) ti scrive un testo. Che può essere il volantino di un evento locale come un libro dalla trama complessa, un manuale, una storia per bambini.

ChatGpt è un copywriter, un ghost writer.

È veloce e anche precisa. Come una studentessa o uno studente che fa il compito richiesto. Non toglie e non aggiunge. Riporta quel che ha ricevuto in un modo ordinato, corretto. Non c’è niente di meno né niente di più di quel che è stato trasmesso.

Fanno spesso così anche gli umani. Lo chiamiamo il minimo sindacale.

E spesso va benissimo.

Quando però pensiamo a una rielaborazione originale, a una voce personale, a un punto di vista inaspettato, questi al momento non sembrano rientrare nelle possibilità di ChatGpt. In futuro non si sa.

Tuttavia l’idea di far scrivere un romanzo a ChatGpt è un’idea che ha una sua attrattiva. Come dire, non è che piacerebbe solo ad Amazon. In certi momenti piacerebbe pure agli editor, anche i più puri e duri, che quando l’autore fa i capricci, non vuole saperne di cambiare quella frase, si ostina a voler tenere quella virgola, e poi è in ritardo, oh una macchina sarebbe un paradiso! Però non so Amazon, ma gli editori cercano in realtà qualcosa di originale, qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, in ogni manoscritto che leggono. La formula “se questo libro ha venduto milioni di copie ne facciamo un altro uguale” funziona solo ogni tanto. L’idea di sapere quello che il pubblico vuole è illusoria.

Ma cercare qualcosa di nuovo e originale è altrettanto faticoso che scriverlo o pensarlo. E non è facile, e non sempre riesce. E soprattutto implica che ci si prenda il rischio di sbagliare. Un editore sa che sono molte di più le volte che sbaglia di quelle in cui la azzecca. È la natura della bestia (del resto è la stessa situazione dei grandi giocatori di tennis, anche quelli che vincono gli slam nel complesso della loro carriera hanno perso più partite di quelle che hanno vinto, Agassi docet).

Ciò non toglie che il bilancio, gli azionisti, la concorrenza, la fatica, la stanchezza, la tentazione del facile possano far sì che si dica basta, il prossimo libro lo facciamo scrivere a ChatGpt. Vedrai che nessuno se ne accorgerà. O se se ne accorgerà non gliene importerà nulla.

Del resto molti libri auto pubblicati sono scritti con ChatGpt. Qualcuno lo dichiara e qualcuno no, ma su Amazon se ne trovano a bizzeffe. Sono per lo più manuali, o libri di genere come quelli che una volta si vendevano in edicola, Harmony e sì, anche il giallo Mondadori. Libri di tipo industriale, pensati per chi ha voglia di leggere per distrarsi e cerca sempre la stessa storia, solo con qualche variante. Poi dentro la serialità e l’industrialità si nasconde qualche perla, ma questo è un imprevisto del tutto umano e per niente artificiale. Libri che svolgono la loro funzione, ma che tranne qualche eccezione non entrano nella letteratura. Fanno parte di quell’industria editoriale dentro la quale si trova anche la letteratura. Che con quei libri condivide solo la forma.

Lo so, qui si va su un terreno scivoloso e pericoloso, ma distinguere è una delle nostre prerogative di esseri umani, e la sta imparando anche ChatGpt.

Della letteratura si pensa che il giudizio lo fanno i posteri, perché quel che resta è il meglio di quello che è stato prodotto. Il che non è sempre vero al cento per cento, come dimostrano i ripescaggi annuali del New York Times che ci hanno regalato quella meraviglia di Stoner di John Williams.

Ma complessivamente si può dire che nel lungo periodo la nostra intelligenza collettiva premia quei libri che non solo rispecchiano e raccontano il loro tempo ma aggiungono: una voce, delle sfumature, dei modi di avvicinarsi al mondo, delle fantasie, delle lungimiranze, delle visioni.

Libri che ci fanno andare oltre quello che sappiamo.

Perché quello che c’è dentro la rete lo sappiamo già, visto che ce l’abbiamo messo noi.

Lo sappiamo collettivamente, e in parte anche individualmente. Ma dato che la vita è qualcosa di imprevedibile, abbiamo bisogno di immaginare, di avventurarci, di oltrepassare. E questo lo possiamo fare perché oltre al mondo fuori da noi ce n’è uno dentro di noi. Non sempre facilmente accessibile, ma alla portata della nostra intelligenza naturale. È da quell’universo dentro di noi che nasce l’originalità, la creatività, l’invenzione.

E se magari ce lo teniamo un po’ per noi, senza riversarlo nella rete, la nostra intelligenza resterà più interessante e più utile di quella artificiale. A cui affideremo il noioso compito di scrivere il testo per la locandina promozionale. Mentre ci terremo per noi il piacere di scrivere articoli e libri e recensioni che portano inequivocabilmente il segno della nostra unicità.