Prima regola: “propaganda” è per definizione sempre e solo quella del nemico, esterno o interno che sia, e mai la tua. Il termine infatti non ha mai goduto di buona stampa e non a caso vede la luce nel clima della Controriforma, con la Congregatio de Propaganda fide (1622), un’istituzione della Chiesa Cattolica. Solo nell’età moderna – con la diffusione della stampa popolare, della radio e del cinematografo – arriva a indicare un massiccio repertorio comunicativo che attraverso la manipolazione può rendere superfluo l’esercizio della coercizione e della forza pubblica nel conseguimento dei propri obiettivi d’ordine o di mobilitazione. Un sistema asimmetrico che scientificamente persegue il consenso di massa attraverso strumenti retorici che esondano dai normali mezzi persuasivi, grazie in primo luogo a un’informazione – mirata, tendenziosa o fraudolenta – che aggira costantemente le regole del confronto democratico. Alla “propaganda” le società liberal associano tipicamente la postura e gli assetti comunicativi che hanno caratterizzato i regimi totalitari – sovietico, hitleriano – del secolo scorso, a cominciare da quello mussoliniano che del secolo breve è stato giustamente definito “figlio”. Ma, specie in tempo di guerra, come a carnevale, sappiamo che ogni scherzo vale se aiuta a catturare l’attenzione e a spostare i sentimenti della cittadinanza a favore dello sforzo bellico, come dimostra la storia americana già a partire dalla guerra con la Spagna (1898) sponsorizzata da Hearst e Pulitzer a suon di fake news (che al tempo si chiamava giornalismo giallo).
Denis McQuail (1935-2017), accademico, sociologo e autorevole teorico dei media studies inglesi, è presente alla voce Propaganda dell’Enciclopedia Universale Treccani con un saggio del 1997 che l’editore ora ha ripubblicato. Preceduto da una corposa e documentata introduzione di Massimiliano Panarari, il testo si richiama inizialmente alla definizione di un celebre studioso della comunicazione di massa del secolo scorso, Jacques Ellul. In Propaganda: The Formation of Men’s Attitudes e in altri scritti il teorico francese chiarisce infatti come proprio la concomitanza storica e l’integrazione tra l’apparato tecnico della seconda rivoluzione industriale (giornali illustrati, telegrafo, cinematografo, ecc.) e i primi fondamenti di una psicologia scientifica abbiano concorso alla nascita della “propaganda” nel senso moderno e novecentesco che conosciamo. È all’indomani della Prima Guerra Mondiale che, dopotutto, Edward Louis Bernays , nipote di Sigmund Freud e padre delle moderne relazioni Pubbliche, annuncerà che «La consapevole e intelligente manipolazione delle abitudini organizzate delle masse è un importante elemento delle società democratiche» (Propaganda. Horace Liveright, New York, 1928, p. 9).
È interessante osservare che Ellul, un cristiano razionalista e continentale, da anarchico disilluso pone con enfasi gli aspetti distopici della modernità presenti anche nelle società liberali, abilitati dal nuovo contesto tecnologico e dal dominio mediatico culminato con l’arrivo della televisione commerciale negli anni ’80. Coerentemente al pensiero critico che prevale a sinistra tra gli anni ’50 e i ’70, passando per Francoforte, la sua riflessione tende a sopravvalutare sistematicamente l’inerzia delle masse e il sottostante determinismo tecnologico. Tutto all’opposto, McQuail non manca di rilevare come anche nei regimi dittatoriali come quelli di Hitler e Stalin, dove anche il concetto di verità fu istituzionalizzato come pratica di ministero o di partito, il limite della propaganda restava comunque tracciato dalla disponibilità della coscienza collettiva. Sottolineando come secondo i tecnici ricercatori “il potere di informazione e di persuasione dei media è alquanto limitato”, lo studioso inglese osserva che «Il potere dei mass media per i potenziali propagandisti nondimeno è spesso sopravvalutato e il loro presunto potere è in larga misura un mito». Una frasetta che nell’era dei social, delle AI e del post-populismo globale può suonare oggi non poco invecchiata e vagamente retrò – come alla fine sospettiamo che sia – ma che suona anche come un notevole avvertimento rispetto alla tentazione del fatalismo.