Difficile per me scrivere di un libro dedicato al pensiero di Antonio Caronia senza seguire un filo di pensieri che, uno dopo l’altro, mi porti alla persona di Antonio Caronia, al modo in cui lui parlava delle proprie idee mentre le costruiva, o taceva come assorto tra una frase e l’altra e, a volte, un leggero balbettio sulla prima sillaba di una frase preannunciava invece un discorso lungo e fluido, che accompagnava una camminata nella notte sotto gli alberi dei viali milanesi. Una profonda cultura interdisciplinare, la cassetta degli attrezzi di un avido lettore e meticoloso annotatore, gli aveva consentito di aggredire i problemi da molteplici punti di vista e individuare con grande anticipo le future parole chiave della nostra realtà e della teoria, quegli elementi che avrebbero caratterizzato i molteplici presenti degli anni successivi. Questa cultura di taglio classico, che andava dalla logica alla letteratura e alla filosofia, si era ibridata a partire dagli anni Sessanta del Novecento con il vocabolario politico della tradizione socialista, marxista e trotzkista che si sciolse nel Movimento del ’77.
Quando Caronia approdò a Milano e nel collettivo Un’ambigua Utopia, dopo la crisi dei gruppi extraparlamentari, la sua appartenenza al Movimento iniziò a esprimersi pienamente all’interno dell’area creativa che era stata forte a Bologna con Bifo, Radio Alice, la rivista A/traverso, poi rapidamente diramatasi in tutta Italia attraverso testate come Alfabeta, L’erba voglio e, sulla scia di Cannibale, Il male e Frigidaire. Il suo primo lavoro culturale indipendente è stato quindi comprendere che una rivista come Un’ambigua utopia non apparteneva tanto al mondo delle “fanzine” di fantascienza (anche se curate da militanti della sinistra extraparlamentare), con le loro confuse problematiche letterarie e politiche, ma a quello della cultura militante, e alla contestazione radicale dell’industria culturale e dei meccanismi editoriali. Non è un caso che, anche per la sua precedente esperienza di direttore e giornalista del periodico trotzkista Bandiera Rossa, aveva pubblicato nel 1978 su Aut Aut un intervento intitolato “Oltre la comunicazione acefala”. A ben vedere, se si cerca una visione unitaria del Movimento del ’77 da cui Caronia proveniva (accantonando il diffuso approccio volto a determinarne le differenze e le contraddizioni), allora si deve cercare di comprendere gli interscambi tra la militanza dura, proiettata nella conquista immediata di un contropotere, l’ala che intendeva vivere una liberazione immediata anche allontanandosi e autoescludentesi dalla società capitalista, e la terza che intendeva rifondare un sapere liberato, praticare l’arte, ma anche – in maniera quasi illuministica – acquisire consapevolezza delle culture materiali (in riviste come Scienza Esperienza e La Gola) del saper fare. Fino a che questi tre elementi politici, sociali ed esistenziali riuscirono biologicamente a mantenere un interscambio equilibrato, il Movimento fu in grado di produrre preoccupanti situazioni di contropotere, controcultura e controsapere, e quindi essere un elemento antagonista estremamente pericoloso. Ma come sappiamo, a partire dalla metà del 1978, queste componenti si sono reciprocamente illuse di poter praticare un percorso autonomo avviando quella storica decadenza che porterà il Movimento alla sconfitta politica della sua componente più militante.
Antonio Caronia era più persona della terza componente, quella culturale, pur senza ignorare le altre due, e autenticamente convinto di dover portare il Collettivo di Un’ambigua Utopia – che non aveva fondato ma a cui apparteneva – dalla componente della militanza politica a quella della lotta culturale. È per questo sforzo che riuscì a fare se, a oltre quarant’anni di distanza, solo pochissime riviste dell’epoca (conto Alfabeta e Primo maggio) possono vantare di essere ostinatamente ancora al centro del dibattito culturale e controculturale italiano. Questa intuizione di Caronia venne vissuta, da alcuni, come un tradimento della militanza, ma da altri (e mi considero uno di questi), come l’inizio di una lunga lotta politica e culturale che certamente non è ancora conclusa.
Scrivo questo perché il contributo che Antonio Caronia ha offerto alla cultura italiana, e ai Movimenti che si sono succeduti fino a oggi, ha le proprie radici proprio nella reazione chimica che la sua cultura originale ha avuto nel contesto della fine degli anni Settanta. Probabilmente molti hanno sorriso per questo interesse verso la fantascienza, invece le lenti deformanti della fantascienza erano perfettamente in grado di rendere meno confusi alcuni processi di epocale importanza che proprio in quegli anni avevano iniziato a insorgere. Pur non essendo di formazione un operaista, e sia entrato nel Movimento del ’77 alla fine di un percorso marxista-leninista classico, Caronia comprende immediatamente uno degli elementi fondamentali di quella rivolta: l’uscita del lavoro dalla fabbrica come punto di arrivo di un processo di despecializzazione della classe operaia, progressivamente sostituita nel suo saper fare dai meccanismi di intelligenza macchinale della catena di montaggio. È proprio il meccanismo di macchinazione del lavoratore, il suo integrarsi nei luoghi e nei tempi del sistema di dispositivi integrati gestiti e sincronizzati da un potere altro rispetto all’operaio, che solo la fantascienza era in grado di presentare in tutta la sua estrema radicalità. Sono le metafore della fantascienza a mostrare la fine di un percorso/sviluppo/degradazione del lavoro da cui non è ammessa retrocessione. A ben vedere si tratta di uno spostamento delle capacità artigianali, e delle intelligenze adattive degli umani, che vengono progressivamente sostituite da macchine meccaniche, poi elettromeccaniche, poi elettromeccaniche-informatiche. Nel 1976 era uscito Il computer del capitale di Paola Manacorda (Feltrinelli), studiosi di scuola operaista avevano affrontato in più riprese il problema dell’introduzione dell’informatica in fabbrica, e uno degli elementi cruciali di questa critica era quello della trasformazione del tecnico informatico in una modalità che potremmo definire di “proletarizzazione dell’ingegnere”, anticipando la progressiva regressione professionale e salariale che la versione capitalista dell’informatica iniziava a realizzare. Ciò che noi allora vivevamo come crisi del Capitale era, specularmente, una prestigiosa vittoria del Capitale che si insinuava in spazi e tempi che non appartenevano al lavoro classico per invadere e rendere produttiva l’intera esistenza dell’umano.
Intuizione precocissima di Caronia è stato il comprendere come il corpo umano potesse diventare, fra gli altri, un nuovo spazio d’infiltrazione dello sfruttamento capitalista, e fra i più estremi. Dalla consapevolezza che era iniziato un processo di riduzione del lavoratore a strumento permanente della produzione, in ogni aspetto della sua vita sociale, e di perdita della stessa autonomia corporea, nasceva la prima ricerca che portava all’individuazione di un nuovo soggetto sociale: il cyborg. A una prima lettura il cyborg è il primo post-operaio, un essere umano il cui corpo viene modificato per essere più idoneo al lavoro, per accorciare i tempi di traduzione delle interfacce, per superare le condizioni avverse delle attività pericolose, insomma per dare una svolta radicale alle istanze di miglioramento delle condizioni di lavoro e reprimerle, negare le istanze di autonomia e rifiuto del lavoro. Se esci dalla fabbrica, sembrava dire la fantascienza degli anni ’70, allora la fabbrica ti inseguirà fino a riavvolgerti. Caronia aveva individuato i primi cyborg come soggetto politico nel 1976, quando aveva letto un autore come Cordwainer Smith e ne aveva parlato su Bandiera Rossa. Pensava, all’inizio della sua ricerca, a una sorta di mimetismo che la fantascienza fosse in grado di mettere in campo, e anche a un suo impegno politico e sociale, soprattutto nello slogan “la fantascienza è morta” o forse che dovesse morire, nel senso di contestare un rimando al futuro per riportare a quel qui e ora politico del Movimento, ma soprattutto della rottura dei confini che la fantascienza imponeva a se stessa. La sua accettazione si limitava all’ambiguità che il Collettivo dichiarava nel proprio nome, ma per molti membri di allora quell’ambiguità non era percepita come tale, non era la chiave del progetto, ma solo il sottotitolo del libro più di sinistra pubblicato all’epoca. In questo credo si sostanziasse, all’epoca, lo scontro politico all’interno del Collettivo milanese attorno al 1980, ma da quello strappo nacquero tutti i temi che si trovano in questo libro: il cyborg, la simulazione, la Rete, il postumano, la biopolitica, l’artificiale, la nuova interpretazione di Philip K. Dick, e poi l’arte contemporanea, la rivisitazione di Antonin Artaud e William Burroughs jr.
Quando venne pubblicato Simulacri e impostura di Jean Baudrillard, nel 1981, Caronia era ancora incerto sul giudizio riguardo al cyborg. Da un lato lo attraeva l’idea del corpo come territorio autonomo o piuttosto da tenere autonomo. Gli era evidente che i prossimi conflitti non sarebbero avvenuti nelle fabbriche e nelle piazze occidentali, ma in nuovi luoghi come l’etere delle comunicazioni o i corpi delle persone. Il corpo era dunque un luogo non sacro, ma un territorio all’interno del quale potevano svolgersi (e così sarebbe stato) nuove aspre lotte. Il Capitale intendeva connetterlo più profondamente ai sistemi produttivi come componente e non come intelligenza e arte del processo, dichiarando la condanna a morte di aristocrazie operaie e lavoratori specializzati, ma, in opposizione a questo progetto di dominio assoluto, la persona a sua volta poteva intervenire, disconnettersi, riprogrammarsi. Da qui la sua geniale lettura metaforica de La colonia penale di Franz Kafka ripresa nel volume. Dunque la prospettiva di diventare tutti cyborg era inevitabile ma non era scontato il finale; come sempre nella sua filosofia, una radicale massima alienazione si doveva contrapporre a una massima liberazione. Un altro testo fondamentale, e si tratta di un riconoscimento che più volte Caronia ebbe a confermare, è stato La Grande Scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione pubblicato da Alberto Abruzzese nel 1979. Quell’indagine della cultura popolare, intesa nel suo significato più allargato, così coraggiosa e laica, andava a porre una serie di problemi sulle figure ibride che andavano a conquistare progressivamente il centro dell’immaginario degli anni Settanta, un immaginario che, come quello pulp degli anni Venti e Trenta, partiva dai settori meno colti (apparentemente meno colti?) ma che erano in grado di incarnare quegli aspri cambiamenti della società in cui le tecnologie si andavano a configurare come un elemento di massa.
Paradossalmente Caronia gioca con le metafore della fantascienza al punto che quella che oggi è la metafora, domani è una metafora compiutamente realizzata, l’elemento determinante della realtà economica e produttiva. A partire da Cordwainer Smith e James Tiptree jr. (la prematuramente scomparsa Alice Sheldon), il percorso a ritroso incontra quasi per caso una serie di antecedenti che consentirono di capire quanto fosse latente nella fantascienza l’idea di una ricomposizione tecnologica del corpo umano. Alcuni racconti degli anni Trenta, come Il satellite di Jameson di Neil Jones, presentavano un modello narrativo molto fortunato e noto come “brain in the box”, dove si affrontava la possibilità di togliere la mente umana e trasferirla in un corpo metallico dotato di arti e pinze meccanici. Nell’idea dello scrittore pulp, la serie del professor Jameson (l’ultimo uomo della Terra) pubblicata su Amazing Stories, la sostituzione dei componenti deboli e deperibili del corpo con altri sostituibili di acciaio consente un grande vantaggio fino a ottenere l’immortalità. Nel positivismo banalizzato e nella sorgente tecnocrazia, la cyborgizzazione era prefigurata come un elemento positivo. La storia del corpo modificato, che da Frankenstein arriva alla nuova fantascienza postcoloniale, lascia ben poche illusioni sui processi di capitalizzazione della macchina e Caronia non si sottometterà mai all’ipotesi luddista né a quella di una tecnofilia snob, semplicemente coglieva l’ineluttabilità di queste linee di progresso. In questo senso è molto interessante leggere il profilo di Caronia scritto da Fabio Pintarelli nel saggio “Pensiamo il mondo mentre cambia” pubblicato su Il tascabile.
Era l’ambiguità dunque ad attirarlo verso il cyborg, l’idea di un processo non completamente ascrivibile ad alcuna tradizione umana o delle macchine, una partita ancora da giocare ma con delle novità, con l’entrata della biologia tra le discipline necessarie per comprendere contesto e spazio di azione. In questo senso il sottotitolo di Ursula Le Guin “un’ambigua utopia” gli era congeniale, perché il mondo della simulazione agiva attraverso ambiguità, identità mobili, linguaggi vivi (come in Samuel Delany), identità poliedriche. Da militante degli anni Settanta aveva vissuto la manipolazione dell’informazione e l’utilizzo della cultura ufficiale come fronte armato a difesa della società dei privilegi, ma nella fantascienza si trovavano i maestri di quello stato di cose presenti, Philip K. Dick fra tutti. Non si trattava ovviamente di un complotto, ma di un progetto di dominio assoluto del Capitale che si avvinghiava a una molteplicità di progetti di liberazione dal lavoro coatto. Quel progetto di studio, che condivise tra alcuni transfughi del collettivo Un’Ambigua Utopia, si arricchì progressivamente di molti compagni di viaggio provenienti dall’arte, dallo studio dei media, dall’antagonismo, perché Caronia, nel suo procedere verso il centro teorico del conflitto, non trascurò coerentemente alcuna ibridazione.
Le tre edizioni de Il cyborg (la prima di Theoria nel 1985, poi di Shake nel 2001 e nel 2007) testimoniano quanto complessa sia stata la conquista di visibilità della cyborgizzazione che oggi è così evidente nel complesso collettivo di due manifestazioni apparentemente opposte. La prima è già stata ricordata ed è l’ibridazione tecnologica del corpo umano, quel processo che tende a rendere l’uomo un robot, un meccanismo del lavoro, e di cui il cyborg è la rappresentazione transitoria. La seconda è la visione opposta, quella dell’intelligenza artificiale, ovvero l’itinerario di umanizzazione delle macchine, e di cui il mondo Internet of Things è la mediazione che sperimentiamo oggi. Caronia, famoso per l’intuizione del cyborg, non si è stancato di indagare la cultura delle macchine, sempre attraverso la fantascienza. Sono molte le citazioni di William Gibson nella raccolta di saggi Dal cyborg al postumano, ed è evidente che Neuromante è il primo romanzo in cui possiamo leggere di questo doppio paradigma di trasgressione dei ruoli ottocenteschi così ben messi a fuoco sia nel Capitale di Marx sia nel Grundrisse. Caronia, marxiano e non più marxista, ha trovato in Michel Foucault un vocabolario e un sistema di logiche che lo hanno connesso alla Storia e alla critica del Capitalismo più sofisticata. Un intrico tra biopolitica, distopia e arte ha per anni costituito il centro del suo pensiero, e forse la prima connessione che coglie tra sapere della scienza inteso come strumentazione, arte e possibilità di modificare il proprio corpo al di fuori delle logiche produttive è in Triton, il capolavoro di Samuel Delany, un romanzo che lo aveva colpito molto di più de I reietti dell’altro pianeta di Ursula Le Guin. Anzi Ursula Le Guin, per molti aspetti, è al di fuori delle parti più avvincenti del lavoro di Caronia, anzi, in un certo senso, gli si oppone.
Dal cyborg al postumano (Meltemi / Culture Radicali, 2020) è un’antologia di scritti di Caronia raccolti con intelligenza e con affetto da Loretta Borrelli e da Fabio Malagnini, ed è un libro che individua ottimamente le linee di pensiero di oltre quarant’anni di ricerca teorica e passione artistica. Qui rimando alla recensione che Luca Giudici ha pubblicato sulla rivista online Quaderni di altri tempi intitolata “Scrutando gli slittamenti progressivi dell’umano”, ma sottolineo quanto Caronia avesse precocemente intuito i centri importanti del suo pensiero già a partire dai primi anni Ottanta. I saggi raccolti provengono soprattutto da interventi a convegni e articoli su riviste, riviste molto diverse tra loro e alcune di diffusione molto specialistica e circoscritta. Quindi difficile, prima di questo volume, rendersi conto compiutamente della traiettoria intellettuale di Caronia e di tutto il lavoro che oggi, in molti autori, leggiamo sotto la legenda di “biopolitica del corpo artificiale”.