Dei corpi sotto le bombe a Mariupol

Sulla guerra in Ucraina fra l’obiettività della geopolitica fatta in nome del realismo e il relativismo post-moderno e delle post-verità, vale assumere il rischio del posizionamento e della parzialità sulle tracce di Svetlana Alelksievič e di Donna Haraway: la ricerca di “una prospettiva da quei punti di vista che non possono mai essere conosciuti in anticipo”.

Riprendo in mano le Sei lezioni di storia di E. H. Carr. Esattamente dopo quarant’anni. Avevo dimenticato che a tradurlo era stato quel Carlo Ginzburg che negli anni Settanta aveva accompagnato con I benandanti e, soprattutto con la splendida Prefazione a Il formaggio e i vermi la mia lettura di Thompson, Rawick, Roth[1]. Vuoi mettere le storie raccolte direttamente da un mugnaio del ‘500 in quel di Montereale, da un cimatore luddista di Sheffield nel primo Ottocento, da uno schiavo dell’Alabama prima della Guerra civile, da un operaio metalmeccanico di una fabbrica Volkswagen negli anni ’60 del secolo scorso in quel di Hannover. Si trattava dell’altra storia, quella delle classi subalterne, dai contadini e dagli artigiani prima dell’avvento del capitalismo, su su fino agli operai declassati dell’epoca fordista. Imparammo a conoscerla e apprezzarla questa storia per via dei tempi che correvano. Si era mai visto un sommovimento di quella portata in giro per il mondo e nella nostra italietta? Chi erano questi operai e questi braccianti e perché si erano svegliati   proprio allora? Dalla radicalità delle loro lotte all’urgenza di prendere sul serio – sì, con scienza e coscienza – i loro comportamenti e la loro cultura il passo era stato breve. Thompson lo aveva detto: questa gente non alza la testa a un’ora stabilita come accade al sole, è stata presente al suo farsi fin dall’inizio, cominciamo finalmente a considerarla un corpo vivo di persone vive, a pensarla – perché no? – come una sorta di “fluido che, se tentiamo di arrestarlo in un momento dato per sezionarne la struttura priva di vita, sfugge alla nostra analisi”[2]. Il nostro operaismo, che di questa storiografia è stato per così dire il patrocinatore[3], scelse di sottolinearne la valenza squisitamente politica: leggere il farsi della classe e la sua intenzionalità antagonista a partire dalle lotte. Di più, far dipendere da queste, e solo da queste, non solo i suoi comportamenti ma anche la sua cultura. In verità questa assunzione dell’autodeterminazione della classe era già in Thompson. Il nostro contributo? Certamente il ricorso al concetto di composizione (politica) di classe[4]. La cosiddetta storia militante promossa da «Primo Maggio» ne fu ampiamente debitrice[5]. Ma, qualcuno potrebbe obiettare: quando la nuova storiografia operaista parla di «cultura», a cosa esattamente allude? A quanto prodotto dalla politica culturale promossa nel tempo dal partito operaio?[6] Alla controcultura, che so, della rivista operaista americana «The Masses» agli inizi del secolo scorso, pronta a recepire le istanze degli IWW?[7] Al vissuto personale del singolo operaio? A ben vedere, obiezioni fuori luogo se sollevate in nome di quella «cultura popolare» tanto cara a Ginzburg, ché tutto il discorso della storiografia dell’altro movimento operaio voleva essere “immediatamente produttivo di valori e indicazioni politiche[8] utili a una determinata figura di classe in quel preciso contesto storico. Che oggi non esistono più. Ma fuori luogo perché la riscoperta della cultura di quella precisa composizione di classe operaia (si pensi al bel libro di Balestrini Vogliamo tutto[9]) faceva il paio proprio con la riscoperta della cultura delle classi subalterne da parte di Ginzburg. Dico Balestrini e penso al Gargantua e Pantagruele di Rabelais[10]; Ginzburg lo cita come il romanzo che ci fa capire veramente qualcosa della cultura contadina in Francia nella prima metà del Cinquecento anche se contadini e artigiani ci parlano attraverso le parole dell’Autore. L’Alfonso di Balestrini ci parla invece in prima persona, proprio come il Menocchio di Ginzburg. A una strategia aggirante, à la Rabelais, entrambi avevano sostituito una strategia frontale, quella di un’indagine diretta, senza filtri e intermediari deformanti. Per non parlare del sollievo allora provato nel vedere evaporare nel nulla le tante immagini stereotipate di cultura popolare ancora in voga. Immagini dolciastre, denunciava Ginzburg, che mal si addicevano ai nuovi tempi. Ma, soprattutto, della soddisfazione appena appena malcelata nell’assistere alla sempre più rapida rarefazione di quell’atmosfera storicista crocio-gramsciana egemone nella cultura di sinistra[11].

Non essendo uno storico di mestiere, non saprei dire se quell’innovazione storiografica è proceduta e come, oppure se resta solo un ricordo. D’altronde la denuncia della sua obsolescenza non è di ieri. Certamente quel mondo, come si diceva, non esiste più e più non esiste, intendo politicamente, quella composizione di classe operaia. La distruzione creativa del neoliberismo ha provveduto nel giro di qualche decennio a scompaginare tutte le carte. Tornare a reinventare una nuova classe operaia? Qualcuno ci ha anche provato[12]. Quanto a una sua rinnovata storiografia, presumibilmente ci sarà ancora da aspettare e non solo perché il lavoro dello storico, come si dice, ha il passo lento.

È che manca proprio quel tipo di storico, lo storico militante intendo. Le due cose, storico militante e storia militante, andavano assieme, erano per così dire indisgiungibili. Solamente lo storico militante col “suo porsi dentro il movimento di classe rivoluzionario” [13] poteva fare la storia in quel modo. Allora in questione c’è anche la soggettività – come chiamarla altrimenti? – dello storico. Che per essere, necessita però di talune condizioni che evidentemente non ci sono più. Pensiamo un attimo al destino capitato in sorte all’inchiesta operaia o conricerca. È stata la forma specifica di storia militante negli anni ’60 quando la Fiat e l’Olivetti contavano politicamente ancora qualcosa[14]. Poi sappiamo com’è finita. Qualcuno alle soglie del nuovo secolo l’ha riproposta ed è rimasto scornato ché la metropoli postfordista non è la fabbrica e chi la abita, il suo lavoro, la sua forma di vita, si sono maledettamente complicati[15]. Le domande di sempre – cosa siamo, dove abitiamo, come lavoriamo – sono rimaste sostanzialmente inevase e non per colpa di un qualche Berufsverbot*. Semplicemente non c’era chi le ponesse, ricercatore o storico poco importa. Né vale oramai interrogarsi sul perché. Non c’è il ricercatore che coglie i desideri dell’inchiestato, non c’è lo storico militante a raccontarcelo. Punto.

È il motivo per cui ho ripreso in mano le Sei lezioni sulla storia di Carr. Chissà – mi sono detto – che la vecchia maniera di fare storia non mi torni utile. C’è questa guerra ormai ben piantata nel cuore dell’Europa e chissà per quanto tempo andrà avanti. Ce ne sono state di guerre in giro per il mondo in questo inizio secolo. Tante, troppe, al punto che mi ero assuefatto a questo stato di cose, di guerra globale intendo[16].  Non ci facevo più caso. Ora è diverso e per la prima volta ho paura. E ho bisogno di capire ché, lo pensava Spinoza, la paura arriva quando c’è da riempire il vuoto.

Alevtina Kakhidze. A conversation with Marko from Belgrade, based on real stories on 9.03.2022

Lo storico, dice Carr nella prima lezione, guarda ai fatti. Un fatto è che la notte del 24 febbraio  l’esercito di Putin è entrato in Ucraina. Qualcosa di simile aveva deciso Cesare nella notte fra l’11 e il 12 gennaio del 49 aC quando varcò il Rubicone che allora segnava il confine tra la Gallia Cisalpina e il territorio civico di Roma. Ah, il bell’uso politico dell’analogia come forma di comprensione storica! [17] Da quel fatto principiò la guerra con Pompeo, dall’ultimo quella di Putin con Zelensky. Un fatto è un fatto. Che diventa storico quando lo storico si prende la briga di interpretarlo. Lo farà dal suo punto di vista, con le idee che gli frullano in testa, dice Carr. Da qui il suo invito al lettore di studiare, prima dei fatti, lo storico che li espone, in particolare il suo background culturale. Che il nostro storico, che non appartiene alla genia degli storici militanti, cercherà di nascondere in nome di una sua presunta imparzialità. Il dovere di rispettare i fatti nella loro nudità sarà il suo scudo protettivo. E in effetti il gioco gli riesce quando c’è da interpretare una guerra. Per l’occasione si servirà di una delle tante “«scienze ausiliarie» della storia”[18]: la geopolitica. Che ha una sua logica argomentativa specifica: quella di procedere secondo rapporti di causa-effetto. A rendere più chiara l’esposizione, magari una gran mole di carte a colori, di foto, di schemi e di grafici. Questa ricerca delle cause è fatta in nome del realismo. Come dire: c’è poco da interpretare quando i fatti sono fatti. Checché ne dica Nietzsche[19]. Questa strategia argomentativa funziona quando lo sguardo dello storico è rivolto alle guerre del passato con le sue belle paci utili a sanzionare, con la benedizione del diritto internazionale, il perdente sul campo con l’ennesima spartizione territoriale. Insomma a giochi fatti. È andata così e nessuno può farci niente e infatti il nostro storico nulla concede all’immaginazione utopica e distopica. Da qui la coerenza agli occhi del lettore del suo argomentare, quella sensazione cento e cento volte provata che effettivamente tutto doveva andare come poi è andata, che chi ha vinto doveva vincere e chi ha perso doveva perdere. Con questo trucchetto Hegel ha edificato la sua filosofia della storia universale. Così il realismo si sposa con la necessità, come percepisce chiaramente il lettore colpevolmente distratto. Lo storico sotto sotto ha fatto dei due termini una endiadi e lui c’è cascato.

Il trucco non funziona quando si tratta del presente con una guerra in corso il cui esito non è scontato. Perché? Ma perché in questo caso, e penso all’Ucraina, agli attori di sempre – gli Stati con i rispettivi governi ed eserciti nazionali – bisogna aggiungere il terzo incomodo della gente comune che resiste, si organizza e combatte. In una parola quella forma di guerra nella guerra che fu il cruccio di Carl Schmitt[20]. Lo storico non ne parla, lo ignora, per lui semplicemente questo terzo incomodo non esiste se non come la vittima da tirare fuori dalle macerie della città distrutta ed essere contata. È accettabile questa alzata di spalle da parte di uno storico che si misura col proprio presente? Perché, mi domando, ce la mette tutta a negare quanto alla mia intelligenza è così evidente?

È accaduta la stessa cosa con la guerra di classe tra operai e padroni lungo tutto il secolo scorso. Si parlava, eccome, di «classe operaia» e la si identificava col Movimento Operaio; si scavava nella relazione, ritenuta allora fondamentale, tra l’essere sociale e la coscienza e si faceva storia sociale degli operai interessandosi solamente agli aspetti della cosiddetta «cultura materiale»; a un certo punto anche la grande fabbrica aveva smesso di essere un oggetto sconosciuto ma solo perché considerata la precondizione della sua formazione. E via dicendo[21]. Sul piano della storiografia a provvedere alla scoperta degli operai è stata solo la storia militante dell’altro movimento operaio. Operai in carne e ossa, intendo. La differenza, che so, con l’«uomo che ama la vita e che sa osservarla» della coppia Febvre-Pirenne[22] è tutta qui, vale a dire in questo grumo di sentimenti e di passioni che hanno scosso il corpo operaio in fabbrica. Ne abbiamo saputo qualcosa solo quando lo storico militante lo ha interpellato direttamente. E abbiamo scoperto di quante belle cose è stato capace.

Alevtina Kakhidze

Ma dei corpi sotto le bombe a Mariupol’? Qualche storico si è preoccupato di condurre un’inchiesta, una conricerca? Perché solo in questo caso potrebbe scoprire cosa un corpo offeso e indignato è capace di fare sotto le bombe e raccontare della sua resistenza, di come riesce a organizzarsi e di come riesce a combattere e vincere.  Sempre il nostro Carr diceva che la scelta dei fatti storici non dipende “da una qualità intrinseca dei fatti stessi, ma da una decisione a priori dello storico”[23]; evidentemente l’esperienza che della guerra va facendo la gente ucraina sulla propria pelle appartiene per lui a un altro ordine di cose. La condizione naturale di quell’esperienza con il suo carico di affetti e passioni in primo piano semplicemente non la considera materia di storia; al massimo, e per la modalità scelta di raccontarla, la relegherebbe per ben che vada dentro i confini residui di una storia minore qual è considerata la storia orale. C’è della supponenza in tutto questo. É come se il pensiero della gente comune fosse di per sé equivoca e inadeguata la conoscenza della sua esperienza. La verità è che il nostro storico è interessato a un altro ordine di discorso e di conoscenza, libero dalle passioni e dai patemi d’animo del momento, in cui il corpo è messo a tacere e la fredda ragione si prende la scena. Si torna alla ratio della geopolitica, ancora alla conoscenza obiettiva delle relazioni di causa-effetto di cui solo lui si vuole depositario. Una sorta di conoscenza di secondo genere versus l’altra di primo genere[24].

Ad apprezzare quest’ultima è invece il grande romanzo della letteratura realista; in quello giusto, si diceva, trovi quanto non c’è nel libro di storia. Mi è capitato con un romanzo della scrittrice bielorussa Svetlana Alelksievič [25]. La guerra in questione è quella combattuta dalla Russia sovietica in Afganistan con l’invasione del paese nel dicembre ’79. Per tutto il tempo che è durata, 10 anni, i cittadini sovietici nulla hanno saputo della macelleria in corso: un milione e mezzo di vittime civili e cinque milioni di profughi da parte afgana, dai 15-20 mila i morti e 40-50 mila i feriti e i mutilati da parte sovietica. Né lo storico sovietico si è preoccupato di ficcare il naso nella faccenda. Se è comprensibile la presa della propaganda del regime sulla gente comune per nascondere la tragedia, quel silenzio è invece un problema. Sarà tolto solo quando il presente diventerà un giorno storia? Imperdonabile. Da parte sua la Alelksievič per quattro anni ha percorso in lungo e in largo l’Urss per parlare con i reduci della guerra, anche gli invalidi, e con le vedove e le madri dei caduti. Ha ascoltato e registrato riuscendo in questo modo ad acquisire una conoscenza della guerra più ricca di quella che aveva. Ne vien fuori qualcosa che è a metà tra il saggio storico tradizionale e il romanzo classico, molto vicino alla “scrittura di una storia ‘indisciplinata’, pensata in interazione con i registri delle emozioni” di cui parla Claire Clivaz[26]. Oppure molto vicino al sapere situato di cui parla la Haraway: “I saperi situati richiedono che l’oggetto di conoscenza venga raffigurato come attore e agente, non come schermo, terreno, o risorsa, e certo mai come schiavo del padrone che non ammette dialettica attribuendo solo a se stesso il potere di agire e l’autorità del sapere “oggettivo. […] Dunque, i resoconti di un “vero” mondo non dipendono da una logica di “scoperta” ma da una relazione sociale di “conversazione”, carica di potere”[27].

Suggestioni metodologiche, queste ultime, sicuramente lontane dal relativismo post-moderno di derivazione nietzschiana (e non) e dal mondo della post-verità in cui esistono solo narrazioni, tutte legittime e tutte equivalenti. Dove la portavoce del governo Bush può rispondere al giornalista che la rimprovera di dire il falso a proposito dell’Iraq, che no, non di cose false si tratta ma di una narrazione diversa dello stesso fatto e dove il presidente russo Putin può raccontarsela come vuole sulle relazioni storiche del suo paese con l’Ucraina[28]. Ma quanto mai utili a “costruire una dottrina dell’oggettività-obiettività* utilizzabile ma non innocente”[29]. Vale a dire che si vuole nemica e di questo relativismo e di quelle interpretazioni olistiche con le sue belle pretese  ‘scientifiche’. L’alternativa a entrambe sono per l’appunto le “conoscenze parziali, situabili, e critiche che ammettono la possibilità di reti di connessione chiamate solidarietà in politica e conversazioni condivise in epistemologia. Il relativismo è un modo di essere da nessuna parte mentre si pretende di essere ugualmente dappertutto. L’’eguaglianza’ di posizionamento è la negazione della responsabilità e dell’indagine critica. Il relativismo è lo specchio perfetto e gemello della totalizzazione nelle ideologie dell’oggettività; entrambi negano i rischi del posizionamento, dell’incarnazione e della prospettiva parziale, entrambi rendono impossibile veder bene”[30].   Machiavelli non ragionava diversamente quando diceva che “a conoscere bene [la natura] de’ principi bisogna esser populare” assumendo il punto di vista di “uno uomo di basso et infimo stato[31]. Per compiere al meglio questa scelta, il nostro storico – è sempre di lui che stiamo parlando – dovrebbe essere insieme appassionato e distaccato: provare per quell’uomo e la sua gente qualcosa di più della mera empatia cerebrale prodotta dai neuroni mirror, vale a dire sensazioni ed emozioni.  All’occasione dovrebbe anche distaccarsene mettendo tra parentesi le ragioni culturali e politiche di quell’empatia. Di ‘distacco appassionato’ parla pure la Harayay. Non va confuso, dice, con il riconoscimento della parzialità del punto di vista assunto né con l’autocritica che in proposito   si è disposti a fare; piuttosto è da intendere come la ricerca di “una prospettiva da quei punti di vista che non possono mai essere conosciuti in anticipo, che promettono qualcosa di straordinario, cioè, una conoscenza potente per la costruzione di mondi meno organizzati secondo assi di dominazione… L’impegno al posizionamento mobile e al distacco appassionato poggia sull’impossibilità dell’’identità’ politica innocente e su epistemologie come strategie volte a vedere dai punti di vista dei subalterni al fine di veder meglio”[32].

[1] C. Ginzburg, I benandanti, Einaudi editore, Torino 1966; Il formaggio e i vermi, Einaudi editore, Torino 1976; E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra I-II, Il Saggiatore, Mondadori Editore, Milano 1969; G. P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, Feltrinelli Editore, Milano 1973; K. H. Roth, L’altro movimento operaio, Feltrinelli Editore, Milano 1976.

[2] Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra I, cit., p, 9.

[3] Il riferimento è alla collana «Materiali marxisti» diretta all’inizio degli anni Settanta da S. Bologna e T. Negri, poi espressione del collettivo di Scienze politiche dell’Università di Padova.

[4] “S’intende, o si è inteso, per composizione politica di classe, non soltanto la composizione tecnica, la struttura della forza-lavoro, ma anche la somma e l’intreccio delle forme di cultura e dei comportamenti sia dell’operaio massa che di tutti gli strati sussunti al capitale. Dell’operaio massa il suo passato contadino, il suo legame (o la sua rottura) col clan familiare, il suo passato di emigrante, operaio a contatto con più avanzate tecnologie e con società di più avanzato comando sulla forza-lavoro, il suo passato di militante politico e sindacale o il suo passato di membro di un clan patriarcale, cattolico – tutti tradotti in acquisizioni di lotta, in saggezza politica, somma di subculture che si catalizzano a contatto con la massificazione del lavoro o col suo processo inverso, di frantumazione e dispersione sul territorio. Il macchinario, l’organizzazione del lavoro, trasmutano e fanno venire alla luce questi passati culturali, la soggettività di massa se ne appropria e li traduce in lotta, rifiuto del lavoro, organizzazione. la composizione politica di classe è innanzitutto risultato, punto terminale di un processo storico” in Otto tesi per la storia militante, «Primo Maggio» 11, Calusca Editrice, Milano 77/78, p. 62.

[5] C. Bersani (a cura di), La rivista «Primo Maggio» (1973-1989), DeriveApprodi, Roma 2010. Il libro comprende un DVD con la raccolta completa della rivista.

[6] G. Buonfino, La politica culturale operaia, Feltrinelli Editore, Milano 1975.

[7] A. Danieli, L’opposizione culturale in America. L’età progressista e “The Masses” 1911/1917, Feltrinelli Editore, Milano 1975.

[8] A. Negri, Sul metodo della critica storica in Macchina tempo, Feltrinelli Editore, Milano 1982, p. 102.

[9] N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli Editore, Milano 1971.

[10] F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Einaudi editore, Torino 1966.

[11] Sul tema P. Favilli, Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia (1945-1970), FrancoAngeli, Milano 2013, § 5.

[12] M. Hardt/A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale, Rizzoli, Milano 2004; P. Favilli, L’invenzione della classe operaia: Marx e il «partito come classe» in P. Favilli, M. Tronti, Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva, FrancoAngeli, Milano 2007.

[13] Otto tesi per la storia militante cit., p. 61.

[14] R. Alquati, Sulla Fiat, Feltrinelli Editore, Milano 1975.

[15] Fareinchiestametropolitana in «Posse» n° 1, Castelvecchi, Roma 2000.

 

* Divieto di accesso ai pubblici uffici per chi è ritenuto pericoloso per l’ordinamento democratico.

16 Guerra e democrazia, manifestolibri, Roma 2005, Parte III.

[17] L. Canfora, Analogia e storia, Il Saggiatore, Milano 1982.

[18] Sei lezioni sulla storia, cit., p. 15.

[19] “Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: «ci sono soltanto i fatti», dire: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni” in F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885 – 1887 in Opere, Adelphi, Milano 1975, pp. 299-300.

[20] C. Schmitt, Teoria del partigiano, Il Saggiatore, Milano 1981.

[21] P. Favilli, Gli storici italiani e le identità di classe: appunti sulle fasi «ideologiche» e sulle fasi «scientifiche» in P. Favilli, M. Tronti (a cura di) Classe operaia. Le identità: storia e prospettive, FracoAngeli, Milano 2007.

[22] L. Febvre, Problemi di metodo storico, Einaudi editore, Torino 1966, pp. 142-143: “dico gli uomini […] ma gli uomini membri di queste società in una fase ben determinata del loro sviluppo, [a]gli uomini dotati di funzioni molteplici, di attività diverse, di varie preoccupazioni e attitudini, che si confondono tutte insieme, si urtano, si contrastano, e finiscono col concludere fra loro una pace di compromesso, un «modus vivendi» che si chiama «la Vita».

[23] Sei lezioni sulla storia, cit., p. 15.

[24] B. Spinoza, Etica, Parte seconda, Prop. XLI, XLlI, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 156-157.

[25] S. Alelksievič, Ragazzi di zinco, edizioni e/o, Roma 2003.

[26] « A contrario », 2010/2 n° 14 | pages 10 à 26https://www.cairn.info/revue-a-contrario-2010-2-page-10.htm [traduzione nostra]

[27] D. J. Haraway, Manifesto cyborg, Feltrinelli Editore, Milano 1995, p. 124.

[28] http://en.kremlin.ru/events/president/news/66181

* In inglese objectivity ha questo doppio significato.

[29] D. J. Haraway, Situated Knowledges: The Science Questions in Feminism and the Privilege of Partial Perspective in Simiams, Cyborgs, and Woman. The Reinvention of nature, Routledge, London 1991, p. 189, [trad. nostra].

[30] Ivi, p. 191.

[31] N. Machiavelli, Il principe in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 4.

[32] Situated Knowledges, cit., p. 192.