I cavalieri che fecero l’impresa. Così titolava un film di Pupi Avati: titolo suggestivo, (più memorabile della pellicola) che si presta a riassumere lo stupore che prende di fronte a progetti impensati e a modo loro grandiosi. L’impresa, in questo caso, è la pubblicazione (in traduzioni nuove di zecca) dell’opera omnia di ETA Hoffmann; i cavalieri, il curatore Matteo Galli, gli editori de L’Orma, Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, più un ampio drappello di validi collaboratori. Partita nel 2012 e giunta al quinto volume, il primo tomo de I fratelli di Serapione, la collana Hoffmanniana si conferma operazione ardita e altrettanto domata, dove non si trattava solo di restituire nuova voce a Hoffmann, ma di farlo con un approccio inedito, in equilibrio tra rigore e affabilità, nella consapevolezza di volersi rivolgere a un pubblico trasversale e variegato. Scommessa vinta: nell’eleganza grafica mai paludata (tantomeno ammiccante), negli apparati critici ricchi e precisi ma sottratti al colore austero (talvolta luttuosamente celebrativo) che accompagna la riedizione dei ‘classici’. A metà del guado, Alessandro Fambrini, germanista (nonché cavaliere) ha scambiato per noi quattro chiacchiere con Matteo Galli. Matteo Zupancic realizza una recensione a I Fratelli di Serapione. Fabio Camilletti offre una riflessione sull’influenza di Hoffmann nella costituzione della categoria del “fantastico” (S.A.)
Matteo Galli ed io abbiamo molte cose in comune. Siamo entrambi toscani, entrambi germanisti e quasi coetanei (ci separano un paio di giorni alla data di nascita, e una cinquantina di giorni separano entrambi da Diego Armando Maradona; e sì, condividiamo anche il tifo masochistico-calcistico per una certa squadra viola). E coltiviamo un interesse intenso e profondo – che grazie al nostro mestiere abbiamo avuto modo di sviluppare professionalmente – con l’opera di E.T.A. Hoffmann, anche se scaturisce da sorgenti diverse: per me è un inevitabile corollario della mia passione per il fantastico. Per Matteo invece?
Ma sì, anche per me è il Fantastico una delle ragioni principali del mio interesse, il Fantastico proprio nell’accezione di Todorov, la continua esitazione su cosa, fra quello che leggiamo, è impossibile, meraviglioso oppure solo strano, inconsueto ma possibile. Va detto però che ormai una ventina di anni fa ho scritto un libro che si chiamava L’officina segreta delle idee, in cui ho provato a dimostrare che Hoffmann era un autore realistico, attentissimo agli eventi della politica contemporanea, Napoleone prima e l’età della Restaurazione in seguito. E quindi anche il suo paradossale realismo mi interessa.
‘Paradossale’ probabilmente è la parola giusta, ed è per questo che io vedo Hoffmann anche in una prospettiva dürrenmattiana: ma su questo semmai torneremo dopo, quando parleremo dei post-hoffmanniani. Ora la prima vera domanda, che è quasi obbligatoria: quando e come è nato questo progetto e come sei riuscito a coinvolgere una casa editrice come L’Orma in un’impresa culturalmente meritoria, ma che forse non garantisce un ritorno immediato in termini economici?
Quando conobbi Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, si parla del 2009, a Berlino, e loro mi misero a parte della loro intenzione di fondare una casa editrice, una delle prime idee chiare fu che, fra le varie collane, ce ne dovesse essere una dedicata ai classici, di cui gli editori avrebbero voluto, nei limiti del possibile, pubblicare tutto o quasi, ovviamente traducendo o ritraducendo tutto. Nel 2012 nacque poi L’Orma e pochi mesi dopo partì l’Hoffmanniana con i Notturni curati da me e Gli elisir del diavolo curati da Luca Crescenzi. Da allora sono usciti altri tre volumi e nel 2021 uscirà il sesto, ovvero la seconda parte de I fratelli di Serapione. Naturalmente questi volumi non vendono migliaia di copie, del resto non sono nemmeno troppo economici. Ma le case editrici di qualità puntano (anche) su operazioni di lunga durata che danno prestigio, che conferiscono capitale simbolico. E l’Hoffmanniana, anche a detta dei critici che l’hanno salutata con entusiasmo, lo è.
Sono d’accordo. Peraltro, nel concepire questo ultimo, doppio volume dell’opera omnia, hai pensato di coinvolgere buona parte della comunità dei germanisti italiani, pronti a prestarsi con entusiasmo (credo) all’impresa. Non solo i collaboratori hanno provveduto alle traduzioni dei racconti che compongono i Fratelli di Serapione, ma le hanno anche accompagnate con commenti che, sia pure dissimulati in nota, hanno talvolta il peso di autentici saggi critici e sono comunque un’utilissima guida alla lettura. Che tipo di risultato ritieni che abbia prodotto la traduzione a più mani di un testo come questo? Non c’era il rischio di costruire “una stanza piena di gente”, per citare un classico della letteratura sulla personalità multipla? In altre parole, di moltiplicare attraverso diverse lingue un autore che, dopotutto, pur nella sua versatilità, era uno solo?
Ci sono due ragioni che mi hanno mosso a questa scelta. La prima è, se vogliamo, pratica. Impossibile fare tutto da soli, se non impiegandoci un’eternità di tempo e di energia che materialmente non avevo e non ho. La seconda è che l’opera è sì dello stesso autore, ma non è stata concepita così fin dall’inizio, è il frutto di un processo di agglutinamento nel tempo, testi pubblicati altrove che Hoffmann riedita cucendoci intorno una cornice. Certo coinvolgere ventisei persone è stata una sfida e il curatore, cioè io, ha provato, nei limiti del possibile, a compiere un lavoro di uniformazione, che non è appiattimento e omologazione e che quindi rispetta i diversi stili di traduzione. Diverso il discorso per la curatela: lì sono intervenuto a volte pesantemente, aggiungendo, sollecitando e guidando i vari apparati, anche perché talvolta le indicazioni abbastanza cogenti che avevo dato erano state seguite solo in parte.
Lo so bene, visto che sono stato uno dei traduttori coinvolti. Ma devo dire che un lavoro come questo non poteva fare a meno di un direttore d’orchestra. Sarei curioso di sapere come ha funzionato il tuo relazionarti con i vari collaboratori, ma andremmo a scadere nel pettegolo e probabilmente non è argomento che appassioni i nostri lettori. E allora ti chiedo, sempre a proposito delle traduzioni: Hoffmann è un autore che nel corso del tempo ha conosciuto molte voci diverse in Italia. Solo un racconto come Der Sandmann è stato tradotto almeno una quindicina di volte da traduttori autorevoli come Ervino Pocar o Barbara Allason, oltre che da studiosi di letteratura tedesca come Alberto Spaini, Ferruccio Masini, Luca Crescenzi e te stesso, e con scelte caratterizzanti già a partire dal titolo, che via via è stato Il Sandman, Il mago Sabbiolino, L’uomo della sabbia, L’uomo di sabbia, L’orco Insabbia, e forse ne dimentico alcuni. Non ti chiedo una graduatoria, ma ritieni che ci sia qualche versione idealmente più in linea con il dettato originale, ed eventualmente perché? O ritieni che le traduzioni debbano rinnovarsi, sottoponendosi di volta in voglia al vaglio dei tempi? In estrema sintesi: traduzioni ‘ammodernanti’ o colore e prospettiva ‘storici’?
I classici, è una banalità, sono quelle opere che ogni tanto vanno ritradotte che non vuol dire necessariamente ammodernate. Trovo che le diverse traduzioni del titolo nel caso da te citato siano tutte rispettabili perché sono la prova dell’ambiguità del testo e del personaggio al centro di quella novella.
Registro la tua diplomazia e passo ad altro. Hoffmann era anche un musicista: cosa ritieni che resti di questa sua formazione musicale rispettivamente a livello tematico, linguistico e nell’organizzazione (partituriale?) dei suoi materiali? In particolare in un’opera come il Serapione che recupera scritti sparsi su almanacchi e riviste e li riorganizza in una suite, o cornice?
Lentamente trovo l’abuso di termini musicali nel definire la struttura di un testo un po’ stucchevole perché parole come “fuga” oppure “rondò” oppure “minuetto” vengono spesso usate in modo improprio, puramente metaforico. Nel caso di Hoffmann potremmo immaginare che, date le competenze dell’autore, ci potrebbe essere nei Fratelli di Serapione un principio compositivo di natura musicale. Secondo me non c’è. Il principio è piuttosto quella della commistione dei generi (fiabe, novelle, saggi etc.) tipica dell’estetica romantica, fin dalle primissime teorizzazioni di fine ‘700.
A questo proposito, sul tema di Hoffmann e il suo tempo, puoi dirci qualcosa sulla sua ricezione tra i contemporanei tedeschi? Mi faccio qui portavoce anche di desiderata redazionali: quali erano le riserve di Goethe nei confronti di Hoffmann? In ciò giocavano un ruolo il suo eclettismo, la sua stravaganza, la mancanza di una dimensione allegorica dietro le sue rappresentazioni dello straordinario? O ritieni che sia una questione di temi, di linguaggi e di schieramenti?
Dagli intellettuali e da alcuni colleghi Hoffmann non fu particolarmente amato in vita, lo consideravano un esponente di quella che già allora si era cominciata a chiamare Trivialliteratur. Goethe lo considerava uno dei peggiori esempi, cascame della letteratura romantica, al punto da (fingere di?) non ricordare il titolo esatto del Vaso d’oro che lui ribattezza La coppa d’oro. D’altra parte la commistione degli stili di Hoffmann non poteva andare a genio a un autore che proprio negli anni in cui il nostro scrittore si affacciò, per l’epoca assai tardivamente, sulla scena letteraria, l’altro (Goethe) stava perfezionando o se vogliamo irrigidendo la propria poetica neo-classica, anche e soprattutto in opposizione ai romantici.
Era popolare, Hoffmann? Quando lo è diventato? E lo è diventato?
Hoffmann era molto amato dai redattori di riviste letterarie perché i volumi dove erano contenute le sue novelle o le sue fiabe si vendevano bene. Negli ultimi cinque-sei anni della sua vita Hoffmann non riusciva a tener dietro a tutte le richieste, anche perché di mestiere faceva il giurista e dunque riservava alla letteratura solo i “ritagli” di tempo. Ma alla letteratura, diciamo, “alta” Hoffmann ci è arrivato in seguito, dopo la morte, quando venne ri-scoperto da colleghi francesi, russi, americani tipo Baudelaire, Gogol o Poe che videro in lui un antesignano della letteratura fantastica, appunto, ma anche più semplicemente comica.
Sappiamo come Hoffmann sia centrale nella prospettiva del fantastico moderno. Senza di lui i grotteschi e gli arabeschi di Poe, che era un grande e spudorato emulatore, avrebbero avuto un serbatoio molto meno vasto cui attingere, e quindi, a cascata, diversa sarebbe stata la ricezione di Poe attraverso Baudelaire, diversa l’impronta fantastica sul decadentismo, così come difficilmente avrebbe avuto luogo quel rinascimento fantastico che attraversa come una febbre il primo Novecento (e la febbre, sia detto tra parentesi, è la categoria che Heinrich Heine associa a Hoffmann nella sua Scuola romantica: sintomo di malattia ma anche di estrema sensibilità visionaria). Ma tu, che stai scrivendo con questa edizione un capitolo così significativo della sua ricezione italiana, ritieni che Hoffmann abbia segnato la strada al fantastico anche nella nostra letteratura? Dove, in realtà, dopo alterni tributi (ad esempio la passione degli scapigliati, forse anch’essa lungo la linea Poe-Baudelaire) e nonostante le numerose edizioni e l’interesse della critica, sembra restare un autore ‘accidentale’. Diffidenza tutta italiana nei confronti del fantastico? O come dice Celati a proposito di Imbriani è poco compatibile con “la pesante tradizione umanistica e la sua seriosità d’obbligo”?
Della questione che poni non mi sono mai occupato. Ho come la sensazione che tu ne sappia più di me. L’unica cosa che posso dire è che fra coloro che hanno recensito i volumi della Hoffmanniana, forse non del tutto casualmente, ci sono anche scrittori. Ne cito uno fra tutti che peraltro, anche qui: forse non del tutto casualmente, è uno fra i miei preferiti ossia Michele Mari che ha recensito sia Il gatto Murr (la recensione l’ha poi ripubblicata nel suo volume di saggi intitolato I demoni e la pasta sfoglia, usciti in seconda edizione accresciuta nel 2017) sia, recentemente, il primo tomo de I fratelli di Serapione.
Sì, sono d’accordo su Mari. In realtà credo che ci sia una linea italiana di autori che lavorano hoffmannianamente sul comico-fantastico: uno su tutti è Tommaso Landolfi. Ma si tratta appunto di figure un po’eccentriche, di culto, magari, ma che non hanno fatto scuola e si ritagliano uno spazio piuttosto elitario nella nostra letteratura. Alla domanda precedente aggiungo una curiosità che puoi toglierci in forma di suggerimento: quali sono gli autori dopo Hoffmann che ritieni più hoffmanniani (non solo della letteratura tedesca) e quali i tuoi consigli di lettura?
Potrei dire Kafka, ma se dico Kafka accanto a lui si fa fatica a metterci qualcun altro.
È vero, e questo spiega la secchezza della tua risposta. Però io aggiungerei Dürrenmatt, come accennavo un paio di domande fa, e nel complesso vedo una linea il cui tratto comune è una comicità che trapassa nel grottesco e in questo modo fa vibrare le corde del metafisico, spesso attuato nella sovrapposizione uomo-bestia. Ricollegandomi a quanto dicevamo prima, una linea Hoffmann-Kafka-Tozzi-Dürrenmatt-Landolfi-Mari: così sgranata, questa sequenza non mi pare nemmeno tanto secondaria nella letteratura otto-novecentesca e oltre.
Bene, siamo arrivati alla fine. Prima di congedarci un’ultima domanda, anch’essa obbligatoria: che cosa dobbiamo ancora aspettarci?
All’inizio del 2021 il secondo tomo dei Fratelli di Serapione. A seguire un volume sugli scritti musicali di Hoffmann. E poi mancano ancora i primissimi racconti (e fiabe e saggi), quelli contenuti nei Pezzi fantastici alla maniera di Callot e un volume sugli splendidi ultimi racconti. Il decimo e ultimo volume sarà una specie di album riepilogativo che ancora dobbiamo concepire.
Dieci è un numero perfetto. Io attendo soprattutto il volume nove, perché gli ultimi racconti, oltre a essere splendidi, come dici tu, sono anche meno studiati, meno esplorati, e sono sicuro che attraverso questa edizione troveranno la ribalta che meritano. Grazie per questa chiacchierata, Matteo, e buon lavoro a te e all’Orma.