“Oggi / la vita rifaremo di nuovo, / sino all’ultimo bottone”: così proclamava con voce possente Majakovskij nel 1917. Come per lui, il nemico da battere è la vita quotidiana anche per i situazionisti e per Debord, di cui Eleuthera pubblica ora Ecologia e psicografia, raccolta di saggi e articoli in gran parte inediti, a cura di Gianfranco Marelli.
La vita nella città capitalistica, poiché in essa appare con estrema chiarezza “la tendenza totalitaria dell’organizzazione della vita”, rende gli individui isolati e riduce la loro esistenza quotidiana “al puro squallore del ripetitivo quotidiano, associato all’assorbimento di uno spettacolo anch’esso ripetitivo”. Le pratiche di lotta devono allora puntare a “estendere la parte non mediocre della vita” e “diminuirne, per quanto possibile, i momenti vuoti.” Ogni tentativo di trasformare la vita quotidiana passa attraverso la critica del “lavoro alienante e il rifiuto di sottomettersi al lavoro forzato”, per cui bisogna scommettere “sul lavoratore (metallurgico o artista) che – cosciente o meno – rifiuta il lavoro e la vita organizzati” (Internazionale Situazionista, 8, 1963). Lo slogan Ne travaillez jamais – che riecheggia un verso di Rimbaud: Jamais nous ne travaillerons –, scritto su un muro di rue de la Seine a Parigi da Debord già nel 1953, riappare poi sui muri della città nel 1968 durante lo sciopero generale selvaggio.
Due sono i concetti e le pratiche indicate da Debord per sovvertire la vita quotidiana. La deriva, di provenienza dadaista e surrealista, che consiste in una “tecnica del passaggio frettoloso attraverso ambienti vari”, tipo di attraversamento spaesante dello spazio urbano che dà origine alla psicogeografia, un tipo di osservazione sistematica degli effetti che i diversi ambienti cittadini producono sullo stato d’animo. Il détournement, intervento volto a modificare l’attraversamento e l’uso dello spazio urbano per creare “una perfetta insubordinazione alle sollecitazioni abituali”, legate alle esigenze della vita quotidiana così come è dominata dal capitale: necessità di raggiungere il luogo di lavoro dalla propria abitazione, i luoghi di consumo, di divertimento e così via.
Alla psicogeografia (che propone una trasformazione radicale dell’ambiente attraverso il comportamento straniante di chi pratica la deriva) è legata anche l’ecologia che, in una prima fase del pensiero di Debord, differenziandosi dal significato corrente, è riferita al solo contesto urbano frazionato in unità in cui la relazione abitanti/abitato rimane compressa in una connessione statica, in rapporto alla produzione di merci e al loro consumo. In un secondo tempo Debord nella sua analisi sul “Pianeta malato” (capitolo 11 di cui pubblichiamo su Pulp un estratto), espressione della “crescita automatica delle forze produttive della società di classe”, sposterà la sua riflessione sul “degrado rapido delle condizioni stesse della sopravvivenza” sulla non-vita che minaccia la vita autentica. E anche sulla necessità da parte del potere di cercare compromessi (o escamotage) al fine di evitare che la questione diventi motivo di rivolta da parte del proletariato, che per l’autore è l’unica vera soluzione.
La solita domanda: a che può servirci tutto questo?
Paolo Virno, ancora nel 1990, assegnava ai testi di Debord un posto di rilievo “nello scaffale o nella memoria – a fianco di pochi altri.” Per due motivi, almeno: i situazionisti hanno rappresentato uno dei rari tentativi di praticare forme di sovversione nel periodo di transizione tra fordismo e postfordismo vale a dire quel “modo di produzione in cui il ruolo preminente spetta alla cultura e alla comunicazione”, che si sarebbe affermato solo una ventina di anni dopo. E perché hanno previsto e smontato l’ideologia postmoderna, con il suo relativismo, la fine della storia e la diffusione del pluralismo degli spettacoli camuffato da rispetto delle differenze.
Le pratiche dei situazionisti possono tornare utili anche per cercare di decifrare alcuni tratti fondamentali dei movimenti del nuovo millennio. Intanto, la caratteristica che prevale e che li differenzia dai movimenti precedenti è l’occupazione dello spazio. Da Atene a Gaza, da Tunisi a New York, a Istanbul, a partire almeno dal 2008, tutti i movimenti hanno praticato l’attraversamento e la presa di possesso dello spazio – uno ne ha addirittura derivato esplicitamente il nome: Occupy Wall Street. È una sorta di deriva collettiva che, da un lato ha permesso l’esplorazione psicogeografica della diversità funzionale delle parti della città; dall’altro, un détournement di quella stessa funzionalità stabilita dalle strutturazioni urbanistiche ufficiali. Il risultato è la costituzione di una forma di comunità, seppur temporanea – ma anche questo è nello spirito dei situazionisti – in cui si rende possibile l’esperienza della comunicazione diretta. L’intervento politico dei situazionisti consiste, appunto, nella costruzione di situazioni, cioè di momenti di vita collettiva in cui possa realizzarsi una libera comunicazione tra gli individui. In opposizione a tutte le forme di comunicazione addomesticate e passivizzanti (soprattutto nel linguaggio) in cui “viviamo come nell’aria viziata”, è possibile praticare la “non-sottomissione delle parole, la loro fuga, la loro resistenza aperta”, perché “dove c’è comunicazione non c’è Stato.” (Internazionale Situazionista, 8, 1963). Così la creatività dei mezzi di espressione può esplicarsi pienamente, e possono funzionare anche forme di comunicazione considerate “basse”, come fumetti, canzoni, soprattutto graffiti che coprivano i muri di molte città del mondo.
Un altro elemento importante di questi movimenti è la mancanza dei leader classici, al massimo appaiono dei portavoce momentanei, a favore di una pratica orizzontale di tipo assembleare. Per i situazionisti sia la forma partito classica che la pratica militante che ne consegue sono da rifiutare: la militanza tradizionale è fondata sul sacrificio, nell’attesa messianica o nella proiezione verso un futuro sempre inattingibile, mentre, al contrario, la realizzazione dei desideri e l’attività rivoluzionaria devono coincidere nella vita quotidiana. Lo sviluppo capitalistico stesso, con le sue esigenze insopportabili, ci spinge alla “trasformazione rivoluzionaria della vita quotidiana, che non è riservata a un vago avvenire ma posta immediatamente davanti a noi”. Tra l’organizzazione di professionisti e la disorganizzazione si sceglie una terza via: “un’organizzazione rivoluzionaria di tipo nuovo, fin dalla sua formazione” una sorta di “stato maggiore che non vuole truppe”, non vuole esecutori, e sceglie di essere solo “il detonatore, l’esplosione libera dovrà sfuggirci definitivamente, e sfuggire a qualsiasi controllo.” (Internazionale Situazionista, 8, 1963). Certo, idea non priva di contraddizioni, posto che, a differenza delle organizzazioni di partito, l’accesso allo stato maggiore era sottoposto a regole rigidissime e il gruppo era volutamente molto ristretto. E va incontro a equivoci, contraddizioni e sconfitte, fino alla sua auto-estinzione. In ogni caso, tutto ciò che di originale vi è in Debord e nei situazionisti dipende proprio dalla convergenza tra la critica sul terreno artistico e, altrettanto fondamentale, la critica della tradizione marxista imperante all’epoca. Basti ricordare che al tema è dedicato il capitolo più lungo de La società dello spettacolo.
Ma in ogni caso, anche nel momento di pessimismo più cupo, quando riflette sulla fase in cui la natura intera è inglobata nella sfera dei beni economici ed è in gioco la nostra stessa sopravvivenza, Debord non smette di ricordarci da che cosa questo dipenda; e che cosa bisognerebbe fare: “Quando piove, quando ci sono finte nuvole a Parigi, non dimenticate mai che è colpa del governo. La produzione alienata provoca la pioggia. La rivoluzione porta il bel tempo.”