In Perché scrivo, George Orwell offre quattro motivazioni alla base del lavoro di ogni autore, compreso il suo: la finalità politica, l’impulso storico, il puro egoismo e l’entusiasmo estetico. In Cose che non voglio sapere, pubblicato da NN Editore nella traduzione di Gioia Guerzoni, Deborah Levy dà una sua personale lettura di quei punti, ripresi nei titoli dei capitoli – una vera e propria risposta al saggio, come viene annunciato nel sottotitolo. Si tratta del primo volume della sua Autobiografia in movimento, in cui una delle figure più stimate della letteratura inglese contemporanea riflette sull’essere donna e scrittrice in una società plasmata dal patriarcato.
La tappa di partenza resta l’Io. Un Io che – lo ricorda bene Olga Campofreda nella prefazione – deve cominciare da sé per trovare verità cercate all’esterno. In preda a una forte crisi esistenziale, fatta di pianti sulle scale mobili, Levy abbandona la sua quotidianità per soggiornare a Maiorca: intraprende un viaggio non tanto fisico quanto interiore, un’indagine sulla sua esperienza e su temi legati alla condizione femminile: la maternità, il peso dello sguardo maschile sulla percezione della propria persona, la perdita di identità.
Lo sradicamento e la fuga sono da sempre presenti per Levy, in ogni fase. Dal Sudafrica in piena apartheid dove è nata e cresciuta, nel periodo di prigionia del padre per le sue idee, al trasferimento repentino in Inghilterra, paese d’Esilio, in un sobborgo in cui pianificare un futuro diverso e lontano; ancora, l’evasione annunciata nelle prime pagine. Per quest’ultima viene scelto un luogo già amato e usato a mo’ di rifugio, la terra dove si trasferì George Sand assieme a Chopin, ma anche da dove sente il bisogno di allontanarsi Maria: conoscenza di lunga data che Levy osserva, quasi fosse una sua controparte.
Questa sezione del memoir è quindi imperniata sullo spostamento, insieme allo scavo di una giovinezza segnata dalla difficoltà nel comunicare, dalla scoperta della scrittura. Ancora ragazzina in un ambiente claustrofobico, Levy si avvicina gradualmente a un universo mai immaginato, per poi diventare un’adolescente decisa a inseguire la sua ambizione. A decenni di distanza, da adulta con una carriera di successo, continua a porsi domande: “Non sapevo come portare il lavoro, la mia scrittura nel mondo”, in quale modo la sua voce – in generale quella delle donne e in particolare delle autrici – può occupare spazio, sbarazzandosi dei condizionamenti imposti dai ruoli tradizionali di moglie e madre. Come se questi due termini fossero i confini entro cui è lecito respirare, senza nessun’altra possibilità. Si rafforza allora la consapevolezza di aver lasciato indietro la propria natura, i propri desideri: “Non avevamo ancora capito fino in fondo che la Madre, per come veniva immaginata e politicizzata dal Sistema Sociale, era un’illusione. Il mondo amava l’Illusione più della Madre. Al contempo, svelare questa illusione ci avrebbe fatto sentire in colpa”.
Il passato, allora, si rivela una chiave di interpretazione essenziale, perché chiama a sé, e Levy non può far a meno di rispondere. Si serve di taccuini e appunti, di testi capisaldi della letteratura femminista come Julia Kristeva, Simone de Beauvoir, Marguerite Duras; di una prosa equilibrata e introspettiva, attenta al tessuto del tempo e alla persistenza di suoni e immagini. Un Io in movimento, fin troppo abituato a proiettarsi fuori, passo dopo passo viene ricondotto all’interno in una circolarità che proseguirà nei libri successivi l’esplorazione dell’esistenza vissuta.