Nel tessuto della scrittura di Deborah Levy convivono una concretezza che si ha l’impressione di toccare con mano e un senso di sradicamento capace di far tremare la terra sotto i piedi. Percezioni tanto opposte da restituire la complessità del raccontare un’esistenza, anche se si tratta della propria: rimaniamo irrealtà anche ai nostri occhi, ci ricorda l’autrice inglese citando Marguerite Duras. Un fatto già evidente in Cose che non voglio sapere e ancora oggetto di indagine ne Il costo della vita, i primi volumi della sua Autobiografia in movimento, pubblicata da NNE nella traduzione di Gioia Guerzoni.
A cinquant’anni, Levy rinuncia alla rassicurante stabilità di un matrimonio infelice e ricomincia daccapo, con una certezza: “Non smetterò mai di soffrire per questo mio vecchio desiderio di un amore duraturo che non riduca i suoi protagonisti a qualcosa di meno di quel che sono”. Ci sono le figlie da mantenere, una casa da mandare avanti, un lavoro di cui occuparsi: è essenziale riappropriarsi del tempo e dargli una direzione diversa, e soprattutto si fa impellente l’esigenza di ricostruire spazi. Un capanno diviene rifugio in cui trovare la solitudine giusta per scrivere – la stanza tutta per sé – e ordinare il puzzle interiore. Uno smarrimento evitabile, forse, eppure necessario, perché il caos è ciò che più attrae l’umanità, il mezzo che ci permette di dare alle tessere del nostro destino una forma più congeniale ai nostri desideri.
Diventare una madre single nel bel mezzo di una crisi interiore e di una carriera impegnativa è una sfida. D’altronde, la libertà porta con sé un prezzo. Dall’economia famigliare fino ai problemi idraulici, le giornate di Levy si arricchiscono di una dimensione materiale del tutto inedita: una fisicità che aiuta ad accantonare il dolore nel quotidiano e ad affrontare questioni urgenti nella scrittura. Come impostare la narrazione di un io in primo piano senza servirsi di flashback, quindi la relazione tra l’io raccontato e l’io raccontante, ieri e oggi. Il risultato è quello che leggiamo adesso. Un testo in cui sono tangibili la funzione degli oggetti, veicolo di sensazioni e memorie, e la ritualità nell’atto di scrivere. Un’autobiografia permeata dal mistero dell’io, la sua inconoscibilità, mentre passato e presente abitano in un’unica dimensione, che è la vita stessa.
Smantellare la cronologia tradizionale, e insieme le differenze di genere. Levy si fa carico di ruoli di solito attribuiti al sesso maschile, riprende il discorso iniziato nel libro precedente sull’illusione di una femminilità ideale. Il costo della vita si apre con due episodi a cui ha assistito, due esempi di ragazze giovani messe all’angolo dall’egocentrismo dei loro interlocutori, uomini adulti, più o meno consci di aver assunto un atteggiamento repressivo e screditante. “È così misterioso questo desiderio di opprimere le donne. È ancora più misterioso quando sono le donne a opprimere altre donne. Posso solo pensare che siamo così potenti da aver bisogno di essere zittite di continuo.”
Levy dialoga con figure mitologiche e personaggi letterari, per esempio Medusa e Jane Eyre, e con grandi intellettuali come Virginia Woolf e Marguerite Duras. Mette nero su bianco il rapporto con la madre, fino agli ultimi giorni prima della morte: l’ennesimo sradicamento, che viene condiviso con composta emotività e con la consapevolezza che spesso siamo così dure verso noi stesse perché così ci è stato insegnato dal peso delle aspettative sociali, da quello sguardo pronto a giudicare la nostra resistenza.