Se un personaggio femminile può raggiungere il lieto fine tra le pagine di un libro, allora Deborah Levy scrive il migliore possibile per il suo io narrante in Bene immobile, il terzo volume dell’Autobiografia in movimento, pubblicata da NN Editore nella traduzione di Gioia Guerzoni. Perché dopo una vita di vagabondaggi, interiori quanto fisici, approda a una nuova stabilità: quella che non deriva da una residenza definitiva, bensì dalla certezza di aver trovato la propria libertà.
Levy è ormai una donna matura, riesce a mantenersi pubblicando libri e non ha più figlie piccole a cui badare. Ha lasciato la casa e il vecchio capanno, riprende un nomadismo mai davvero abbandonato: da Londra a New York, Mumbai, Parigi, Berlino, fino alla Grecia. Coltiva il sogno di una dimora a misura della sua immaginazione, arricchisce la sua fantasia con elementi sempre diversi. Intanto, il racconto delle sue esperienze ed emozioni s’infittisce di oggetti, dal banano che acquista nell’incipit fino all’ossessione per la seta, la fissazione per un paio di scarpe.
Se ne Il costo della vita dedicarsi a una dimensione più materialistica era servito a sopravvivere al dolore, stavolta è una forma di riappropriazione di sé. Gli oggetti sono punto di partenza e insieme di arrivo: il loro valore non ha nulla a che fare con la ricchezza, soltanto in misura minima è legato allo status di benestante, diventano invece espressione della volontà di concedersi spazi finora occupati in punta di piedi, in mezzo ai bisogni e alle richieste del patriarcato. Ciò implica anche poterli mettere a servizio della creatività.
Si rende necessario, come negli episodi precedenti del memoir, capire il peso delle aspettative maschili sulla percezione che la donna ha di sé, però l’analisi va più in là. Levy riflette sull’assenza di desideri individuali nei personaggi femminili, sul loro assoggettamento a un lui: «una donna non sai mai cosa vuole davvero perché le viene sempre detto cosa desiderare». Le artiste non sono immuni da questa tendenza, segno di un condizionamento di lunga data. Restituire desideri alla donna significa darle una materialità tutta sua, così che non sia più un bene immobile del patriarcato. Significa anche cominciare a concepire uno spazio domestico non dominato dallo sguardo maschile, e soprattutto un altro modo di essere donna, lontano da quei canoni di maternità tradizionali e obsoleti. Levy abbraccia in maniera inedita il dolore mai superato per la morte della madre, spesso fonte di frustrazione proprio in quanto distante dai modelli assimilati. Di conseguenza, trovano posto personaggi femminili differenti nella scrittura e nel mondo reale.
L’autrice inglese dialoga ancora una volta con libri, miti e film, non senza una certa dose di ironia, e non dimentica le sue intellettuali femministe di riferimento. Dopo tanto pellegrinare, giunge a una conclusione: «Credo che il mio scopo, in letteratura, sia quello di pensare liberamente, o meglio di fare in modo che i miei libri parlino liberamente per me». E chi legge non può fare altro che riconoscere il ruolo dei contributi di Levy sulla cultura e la letteratura degli ultimi decenni, come ricorda Claudia Durastanti nella prefazione, la sua lingua leggiadra.
I precedenti volumi del Memoir:
Cose che non voglio sapere
Il costo della vita