Tra le tante qualità di questo testo, che è restrittivo definire solo romanzo, c’è anche quella di contribuire a tenere vivo il ricordo del ventennio fascista e dei suoi misfatti, che dovrebbe far parte della memoria collettiva. A mano a mano che si spegneranno le voci di coloro che hanno vissuto il dramma dei campi di concentramento e fatto la Resistenza, saranno i documenti e le testimonianze scritte a respingere le tesi negazioniste che già da tempo si stanno facendo largo nei settori più reazionari della società. Diffido di chi dice che il fascismo è morto, una tesi che cerca di smontare un pezzo importante della nostra storia contemporanea che dovrebbe invece essere un monito. Ma Storia aperta non è solo questo: venti anni di ricerche di Davide Orecchio tra documenti, archivi e materiale paterno, ci danno una visione del Novecento – il cosiddetto secolo breve – ampia e scrupolosa. Quello che ne è scaturito è un testo complesso e articolato (non poteva essere diversamente visto il lavoro di preparazione), che nonostante le sue più di seicento pagine immerge il lettore in una storia coinvolgente da cui è difficile staccarsi. E che lascia molto, a fine lettura.
Il protagonista, Pietro Migliorisi, è l’alter ego letterario di Alfredo Orecchio, il padre dell’autore con cui non è mai riuscito ad avere un rapporto troppo diretto. Nato quando il padre aveva cinquantaquattro anni, non ha mai avuto la possibilità di confrontarsi con lui come avrebbe voluto. Mescolando magistralmente realtà e finzione, forse il modo migliore di fare letteratura, il protagonista è un padre romanzato che vive a sua volta cercando un padre. Educato ai principi fascisti, quelli di M., non può fare a meno di vedere nel fascismo un punto di riferimento, una dottrina che può riscattarlo e renderlo capace di entrare con dignità in una società in cui spesso si sente un estraneo. Partirà per la guerra di Abissinia come volontario, si sposerà con la donna che ama, Michela, e avrà un figlio, Vasco, poco prima di essere richiamato per la guerra di Albania. Al suo ritorno si renderà conto che il fascismo non è quello che pensava, e sarà assalito da dubbi e incertezze. Si ferma a Roma per lavoro, scrive per giornali e riviste oltre che comporre poesie e romanzi, e il suo cambiamento politico – si aggregherà alla Resistenza –, non sarà perdonato dalla moglie rimasta fedele al fascismo, che gli vieta di tornare in Sicilia per rivedere lei e suo figlio.
Le vicissitudini di Pietro seguiranno quelle di un’Italia dapprima dilaniata dalla guerra civile e poi da una ricostruzione in cui il popolo italiano risulterà ancora diviso. Nel dopoguerra il PCI è forte e sembra che ci siano tutti i presupposti per cambiare davvero la società, ma le elezioni non vanno come auspicato da Pietro. E da qui comincia una serie di delusioni: Togliatti che non condanna l’Unione Sovietica per l’invasione in Ungheria e l’ingerenza in Polonia, gli apparati del partito che spiano gli iscritti e lo sospettano per il suo passato fascista, la morte di Di Vittorio prima e di Berlinguer poi, che sembravano aver risvegliato le speranze della sinistra, il dramma del Vajont, le stragi di stato, il terrorismo di destra e di sinistra, il cambio di nome del partito e la morte del comunismo italiano. Tutte disillusioni che portano Migliorisi a cercare la solitudine, come si fosse convinto che cambiare veramente e trovare un punto di riferimento stabile non sia possibile.
Lo stile di Orecchio è fluido e diretto, le tante citazioni da altre fonti – un lavoro davvero impegnativo –, comprese quelle dei diari ritrovati del padre, sono sempre indicate e rendono ancora più avvincente la lettura, che ci sorprenderà non solo per il finale che non va assolutamente svelato perché non è un colpo di scena fine a sé stesso ma è funzionale al racconto. Un libro prezioso, come dicevo, da seguire con una certa attenzione, ripagante infine con una gratificazione che non tutti i testi riescono a dare.